«Entrammo una alla volta.
Dopo ore di attesa, in piedi nel corridoio, avevamo bisogno di
sederci. La stanza era grande, le pareti bianche. Al centro un lungo
tavolo di legno su cui avevano già apparecchiato per noi. Ci fecero
cenno di prendere posto».
"Le assaggiatrici" (Feltrinelli),
il romanzo di Rosella Postorino vincitore del Premio Campiello 2018,
trae ispirazione dalla vera storia di Margot Wölk, l'ultima
assaggiatrice di Hitler, ed è incentrato, appunto, sulle vicende di
dieci donne cui viene affidato il compito di assaggiare i piatti
destinati a costituire i tre pasti giornalieri del feroce dittatore
tedesco al fine di verificare che il cibo adoperato non sia stato
avvelenato o contaminato.
Le assaggiatrici, una volta
ricevuta la visita di alcuni soldati delle SS che hanno annunciato
loro il delicato e pericoloso compito che dovranno svolgere nei mesi
successivi al servizio del Führer, vengono quotidianamente prelevate
dalle loro case e condotte in un ex edificio scolastico adibito a
caserma dove è stata predisposta una mensa, ovvero il posto in cui
dovranno procedere all'assaggio giornaliero dei tre pasti.
E quella mensa, luogo di
costrizione e convivenza forzata, diviene un punto di convergenza di
angosce e paure, di rivalità e contrasti, soprattutto tra le
fedelissime di Hitler, soprannominate le "invasate",
e le altre donne, avverse, invece, ai sentimenti filonazisti. Un
luogo in cui il muro di diffidenza tra alcune donne, che contro la
propria volontà si ritrovano a servire il Führer, vien pian piano
sgretolato lasciando il posto a un sentimento reciproco di
solidarietà e di sostegno, specialmente nell'affrontare il terrore
della morte, che può verificarsi a ogni boccone ingoiato, che si
tratti di un innocuo piatto di fagiolini o di una gustosa torta al
miele.
La voce narrante è quella di
Rosa Sauer, giovane segretaria berlinese che dalla sua città, a
causa dei bombardamenti che hanno gravemente danneggiato la casa in
cui abitava, deve trasferirsi dai suoceri a Gross-Partsch, la
cittadina in cui aveva sede il quartier generale di Adolf Hitler sul
fronte orientale, il Wolfsschanze. Con il pensiero costantemente
rivolto a suo marito Gregor, inviato in Russia a causa della guerra
in corso (era il 1943), Rosa, una volta giunta a Gross-Partsch,
viene subito assoldata tra le assaggiatrici e vede così aggravare il
suo drammatico calvario interiore.
Il romanzo si presenta con una
scrittura quasi a scatti, veloce, intensa, costituita da frasi brevi
e incisive, con i pensieri che si accavallano nel flusso di coscienza
di Rosa, tra i ricordi di infanzia e le sensazioni del suo primo anno
di matrimonio con Gregor, tra incubi e immagini che si ripropongono
in modo ossessivo nella sua mente.
E mentre tali immagini scorrono,
possiamo percepire l'anima di Rosa in balia di continui contrasti e
contraddizioni. Lei ama profondamente Gregor e cade nella
disperazione più nera nel momento in cui le viene annunciato che suo
marito risulta disperso in Russia. Cerca di farsi forza, di
confortare i suoceri, di credere che un giorno lo rivedranno
comparire sulla porta magro e affamato, ma nel ripensare a lui a
volte viene assalita da rimpianti e rancori, perché ha preferito
partire per la guerra e non stare con sua moglie, per essere un buon
tedesco piuttosto che un buon marito, o perché non ha voluto darle
un bambino, per la sua assurda idea che mettere al mondo un figlio
significa condannarlo a morte.
Eppure "i tedeschi amano
i bambini", Rosa non fa che ripeterlo continuamente nel
corso del romanzo. È soprattutto Hitler ad amare i bambini, per lui
le donne hanno un valore solo nel momento in cui fanno tanti figli,
arrivando persino a premiarle per questo, affinché gli garantiscano
un popolo vasto che rinsaldi il suo potere. E i bambini diventano
un'ossessione anche per Rosa, un desiderio che chissà se mai
realizzerà, che magari potrà solo sfiorare, osservando quei figli
delle sue compagne assaggiatrici, i loro occhi azzurri, i capelli,
persino le scapole alate, immaginando un bimbo che abbia quelle
caratteristiche e che possa correre felice.
Tra le tante immagini che
ossessivamente ritornano nella mente di Rosa c'è anche quel gesto
d'amore con Gregor, quelle dita reciprocamente spinte in bocca
sapendo che la bocca non avrebbe morso: «Avrei potuto serrare la
mandibola, morderlo. Gregor non ci aveva nemmeno pensato. Si è
sempre fidato di me». Un gesto di affetto, di intimità e
soprattutto di fiducia.
La fiducia è, infatti, un tema
ricorrente nel romanzo, un elemento cardine di rapporti che si
costruiscono con fatica e che rischiano continuamente di essere
incrinati dal tradimento. Mi viene in mente il conflittuale rapporto
con la compagna Elfride, quel primo scontro in bagno, quel "ti
voglio bene" pronunciato a mezza voce dopo aver capito di
potersi fidare reciprocamente. Oppure l'immagine di Gregor che,
prima di essere dato per disperso, cercava, per quanto possibile, di
scrivere lettere dalla Russia e in una delle ultime missive aveva
accennato a un vecchio detto russo secondo cui un soldato non può
essere ucciso in guerra almeno finché sua moglie gli è fedele. E
Gregor non può che fidarsi di Rosa.
Quella immagine assume quasi le
sembianze di una profezia nel momento in cui Gregor viene dato per
disperso e Rosa, trascorsi alcuni mesi dalla notizia, inizia una
relazione con un tenente delle SS. Si concretizza quel tradimento
della fiducia che Gregor aveva escluso e che Rosa inizia a vivere con
un profondo tormento, ripercorrendo quelle sensazioni che provava da
piccola, quando si chiudeva nella sua stanza ed enumerava le sue
colpe e i suoi segreti.
È una relazione tormentata che
Rosa non riesce a capire bene come vivere, combattuta tra i sensi di
colpa e la sensazione di intimità e tenerezza che lui riesce a
trasmetterle, tra la consapevolezza di non potersi fidare fino in
fondo di lui, nello stesso modo in cui, invece, poteva fidarsi di
Gregor e quel desiderio di libertà che lei stessa va inseguendo nel
momento in cui lui compare davanti alla sua finestra e tutto il
resto sembra scomparire: «C'era, in quel gesto di uscire che
chiunque ignorava, una ribellione. Nella solitudine del mio segreto
sentivo una libertà integrale: sottratta a ogni controllo sulla mia
stessa vita, mi abbandonavo all'arbitrarietà degli eventi».
Rosa avverte in modo pressante
tale esigenza di ribellione dal momento che la libertà, altro tema
fondamentale del romanzo, appare una meta quasi impossibile da
realizzare, soprattutto in un regime dittatoriale che condiziona ogni
gesto, ogni parola. I rapporti che Rosa si trova ad avere con le
persone che la circondano sono, infatti, spesso frutto di una
situazione di costrizione, fino al punto di provare quasi
continuamente la sensazione che le proprie azioni siano indotte dagli
altri: deve mangiare per il Führer, rischiare la vita per lui,
essere sottoposta ad analisi e verifiche, rimanere rinchiusa in una
stanza con le compagne in caso di sospetto avvelenamento. Ma non c'è
solo questo a condizionare la sua libertà, anche fuori dalla caserma
l'angosciante sensazione di costrizione sembra prolungarsi: «Perché,
da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare, e
accondiscendevo, e non mi ribellavo, e continuavo a sopravvivere ogni
volta che qualcuno mi veniva portato via? La capacità di adattamento
è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno
mi sentivo umana».
Eppure la separazione, pure per
quei rapporti nati dalla costrizione, appare comunque dolorosa, un
elemento di tragicità da cui la narrazione non può prescindere. Vi
è per Rosa la drammatica perdita dei genitori, queste figure che
tornano di continuo nella sua mente: suo padre che non ha mai voluto
sottomettersi al nazismo, che al risuonare delle sirene che
annunciano i bombardamenti preferisce rimanere a letto sprimacciando
il cuscino e poi torna in sogno a rimproverarle di lavorare per i
nazisti; sua madre di cui ricorda l'odore, molto simile al suo e che
nel sogno rivede vestita come nel giorno in cui è morta, con un
cappotto sopra la camicia da notte nella fretta di rifugiarsi in
cantina per scappare dalle bombe che cadono inesorabilmente. E poi ci
sono tutti gli altri che lei ha conosciuto e che via via scompaiono
senza che lei possa ribellarsi.
"Le assaggiatrici"
è, infine, il romanzo della sopravvivenza, di chi vede la fine di un
regime che ha odiato, ma che è stato costretto a servire, di chi è
stanco di vivere e di trascinarsi, di vedere le persone care andare
via, al punto da rifiutare di prendere un pezzo di carta per scrivere
un messaggio perché non può più tollerare di scrivere per non
avere risposta, ma che nonostante tutto riesce a trovare la forza di
sopravvivere e di chiudere un cerchio. È un romanzo che colpisce nel
profondo, che lascia sconcertati e rabbiosi, perfino impotenti, di
fronte a ciò che l'uomo è in grado di fare nei confronti dei propri
simili: «Ma mentre giacevo fra quei vestiti, l'enormità della
tragedia si rivelò per intero. Era un evento talmente grande,
intollerabile, che stordì il dolore, si espanse tanto da occupare
ogni centimetro dell'universo, divenne l'evidenza di ciò che
l'umanità era capace di fare».