domenica 4 settembre 2016

Si ricomincia con qualche novità!

Terminate ormai definitivamente le ferie, riavviata l'attività lavorativa, credo sia ormai giunto il momento di riprendere in mano le redini di questo blog. Non senza alcuni cambiamenti, frutto di recenti riflessioni.
Leggendo anche alcuni consigli di un importante blogger, Daniele Imperi, ma, soprattutto, portando avanti una decisione meditata da tempo, ho pensato di delimitare i temi trattati in questo blog, rinviando riflessioni su temi di attualità e vita quotidiana al mio blog di nuova istituzione: http://blog.libero.it/wp/diarionotturno/ (gli argomenti che saranno trattati sono elencati nell'introduzione al blog stesso).
Il blog "Un faro nella nebbia" continuerà a trattare questi temi (molto somiglianti a delle rubriche):
  • analisi e riflessioni su libri e scrittori che mi hanno colpito particolarmente;
  • pillole di filosofia;
  • cronache dei miei viaggi in località di interesse artistico;
  • aneddoti e avvenimenti storici.
La suddivisione in due blog risponde un po' ad una mia esigenza di ordine mentale (quasi una fissazione) che spero possiate condividere.
Buona navigazione!


venerdì 12 agosto 2016

Pausa estiva ... di riflessione!!!!

Le vacanze estive arrivano quasi sempre puntuali a rigenerare fisico e mente dopo un anno stressante e faticoso. Allora, prima di partire, non potevo non augurarvi ferie davvero rigeneranti e rinfrancanti (se ancora non ci siete andati) e un rientro per quanto possibile sereno e pieno di buoni auspici. Il mio blog ripartirà agli inizi di settembre, preceduto, si spera, da qualche momento di riflessione su quale direzione intraprendere, quali argomenti approfondire e, soprattutto, se individuare anche un'altra sede in cui collocare i miei pensieri quotidiani. Ma non adesso, ho un aereo da prendere! Buone vacanze!!!





martedì 9 agosto 2016

Il disastro di Marcinelle

Sono trascorsi sessant'anni dal disastro di Marcinelle, da quel mattino dell'8 agosto 1956 in cui nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio, si sviluppò un incendio a causa della combustione d'olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. L'incendio riempì di fumo tutto l'impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone, che perirono anche per le ustioni e i gas tossici. Tra le vittime vi erano 136 emigranti italiani.
Secondo le ricostruzioni dell'epoca, il disastro ebbe origine da un’incomprensione tra i minatori, che dal fondo del pozzo caricavano sul montacarichi i vagoncini con il carbone, e i manovratori in superficie. Il montacarichi venne, quindi, avviato al momento sbagliato e urtò contro una trave d’acciaio, tranciando un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. Le scintille provocate dal corto circuito fecero incendiare l'olio in polvere e le strutture in legno del pozzo.
Si tratta del terzo incidente per numero di vittime tra gli italiani all'estero dopo i disastri di Monongah e di Dawson. Ma fu soprattutto la tragedia degli italiani immigrati in Belgio nel dopoguerra.


Per capire gli antefatti di tale disastro, occorre ricordare che l'industria belga, pur non avendo subito molti effetti distruttivi dalla seconda guerra mondiale, si ritrovò in una situazione di scarsità di manodopera, anche a causa delle ridotte dimensioni del Paese. Vi fu, quindi, un aumento di richiesta di manodopera da parte del Belgio, soprattutto per il lavoro in miniera. Per tale motivo, il 23 giugno 1946 fu firmato il Protocollo italo-belga che prevedeva l'invio di 50.000 lavoratori dall'Italia in cambio di carbone.
L'Italia a quell’epoca soffriva ancora degli strascichi della seconda guerra mondiale, con 2 milioni di disoccupati ed una diffusa situazione di miseria, mentre in Belgio la mancanza di manodopera nelle miniere di carbone frenava la produzione. L'accordo italo-belga fu, pertanto, inevitabile.
Il giorno del sessantesimo anniversario di tale disastro, il Presidente del Senato Piero Grasso ha affermato che "ripensare come eravamo e vivevamo, rafforza la nostra determinazione ad accogliere con spirito di solidarietà chi oggi è costretto a migrare e ha diritto alla protezione internazionale". Infatti, occorre ricordare che gli immigrati italiani trovarono innumerevoli difficoltà di integrazione con la comunità belga. Addirittura, vi erano cartelli che vietavano sia ai cani che agli italiani di entrare nei locali. Ciò, almeno finché non avvenne la tragedia: a quanto pare era necessario un avvenimento così disastroso affinché la comunità italiana potesse avere riconoscimento e rispetto in Belgio.
Questo disastro e i suoi antefatti dovrebbero, quindi, farci riflettere molto, oltre che sulla necessità di aumentare sempre di più le misure per garantire la sicurezza sul lavoro, anche sul nostro atteggiamento verso gli stranieri che fuggono dai paesi in guerra o semplicemente emigrano cercando lavoro in Italia e nel resto d'Europa. Soprattutto, dovremmo pensarci bene prima di insultarli e considerarli come ladri giunti nel nostro Paese solo per rubarci il lavoro. Anche se sappiamo bene che il passato spesso non insegna nulla.

domenica 31 luglio 2016

L'arte dei piccoli passi di Antoine de Saint-Exupéry

Oggi ricorre l'anniversario della morte di Antoine de Saint-Exupéry, scrittore e aviatore francese, deceduto a Marsiglia appunto il 31 luglio 1944, a soli 44 anni.
È divenuto certamente famoso per il romanzo "Il piccolo principe", opera poetica in cui si affrontano temi come il senso della vita e il significato dell'amore e dell'amicizia, nei vari incontri che il protagonista fa con diversi personaggi e su molti pianeti.

Ma de Saint-Exupéry scrisse anche una poesia, anzi una vera e propria preghiera, in cui non invocava miracoli, intercessioni o prodigiose guarigioni, ma chiedeva di diventare più riflessivo con i piccoli passi che, giorno dopo giorno, lo avrebbero aiutato ad affrontare tutto ciò che la vita gli avrebbe posto dinnanzi.

Non ti chiedo né miracoli né visioni
ma solo la forza necessaria per questo giorno!
Rendimi attento e inventivo per scegliere
al momento giusto
le conoscenze ed esperienze
che mi toccano particolarmente.

Rendi più consapevoli le mie scelte
nell’uso del mio tempo.
Donami di capire ciò che è essenziale
e ciò che è soltanto secondario.
Io ti chiedo la forza, l’autocontrollo e la misura:
che non mi lasci, semplicemente,
portare dalla vita
ma organizzi con sapienza
lo svolgimento della giornata.

Aiutami a far fronte,
il meglio possibile,
all’immediato
e a riconoscere l’ora presente
come la più importante.
Dammi di riconoscere
con lucidità
che le difficoltà e i fallimenti
che accompagnano la vita
sono occasione di crescita e maturazione.

Fa' di me un uomo capace di raggiungere
coloro che hanno perso la speranza.
E dammi non quello che io desidero
ma solo ciò di cui ho davvero bisogno.

Signore, insegnami l'arte dei piccoli passi

In fondo, è una preghiera che potrebbe essere pronunciata anche da un non credente che cerca la forza per andare avanti, chiedendo non ciò che desidera, ma quello di cui ha davvero bisogno: la capacità di scegliere le esperienze più significative; la piena consapevolezza nell'utilizzare e organizzare al meglio il proprio tempo; l'importanza attribuita al presente senza rimpiangere il passato o angosciarsi per il futuro; la possibilità di utilizzare i propri fallimenti per crescere e maturare.
Tutti elementi che spesso trascuriamo e riteniamo poco importanti, ma che lo scrittore considera talmente fondamentali da farne oggetto di invocazione. Perché i piccoli passi sono quelli che ci consentono di arrivare lontano e raggiungere le nostre mete e i nostri obiettivi.

martedì 26 luglio 2016

Discutibili recensioni su Tripadvisor

Tripadvisor è un famoso portale web in cui sono pubblicate le recensioni degli utenti su hotel, ristoranti e altre attrazioni turistiche. Si tratta, solitamente, di giudizi che, condivisibili o meno, aiutano le persone ad orientarsi nella scelta della propria meta di viaggio.
Accade, però, che una di queste recensioni finisca per sollevare parecchie polemiche. Un padre, infatti, si è lamentato su Tripadvisor, affermando che nel villaggio vacanze dove era appena stato con i propri figli vi erano troppi ragazzi disabili, la cui vista aveva turbato profondamente la serenità dei suoi bambini, costretti tutto il giorno a guardare persone sofferenti. Questo signore sarebbe, quindi, intenzionato a chiedere un risarcimento alla struttura ricettiva, rea di non averlo avvisato della presenza di turisti disabili.


Questa recensione ha scatenato la reazione inviperita di Selvaggia Lucarelli che nella sua pagina Facebook parla dell'imbecille di turno che "ha intenzione di denunciare la struttura perché c’erano troppi disabili. E poverini, i figli sono rimasti impressionati. Mica da un padre così, no, da due carrozzine". Ovviamente, di fronte al linguaggio colorito di Selvaggia (che rimane una delle più interessanti teste pensanti nel Web), le risposte degli utenti sono state, come sempre, contrastanti.
Mi colpisce, in particolare, un commento secondo cui non vi è nessuna legge che imponga ad un padre di insegnare ai propri figli a convivere con la diversità e la disabilità. Sinceramente, trovo questo commento sconcertante. Certamente, non vi è nessuna legge scritta approvata da un Parlamento e pubblicata in Gazzetta Ufficiale, ma, a mio avviso, esiste una legge morale, basata su sentimenti di umanità ed empatia, secondo cui un genitore ha il dovere di far capire ai propri figli che la diversità esiste e non è un elemento negativo, ma deve essere rispettata e apprezzata. Anche perché, in fondo, ognuno di noi è un diverso, possedendo peculiarità che lo distinguono da tutti gli altri e lo rendono speciale. Questo insegnamento è fondamentale anche per evitare che alcuni bambini divengano vittime di atti di bullismo da parte di soggetti convinti che la diversità implichi debolezza e inferiorità.
La disabilità, a sua volta, non deve essere considerata una fonte di sofferenze da cui proteggere i propri bambini, relegandoli in un mondo inesistente: i bambini proprio con le sofferenze devono imparare a convivere, per poter sviluppare quei sentimenti di solidarietà ed empatia di cui, oggi, purtroppo si sente spesso la mancanza.
In proposito, molto toccante e significativa è la risposta di Jacopo Melio, ventiquattrenne attivista per i diritti dei disabili, anche lui costretto in una carrozzina: "Se mai un giorno avrò dei figli vorrò insegnare loro che la vera disabilità è negli occhi di chi guarda, di chi non comprende che dalle diversità possiamo solo imparare. Disabile è chi non è in grado di provare empatia mettendosi nei panni degli altri, di mescolarsi affamato con altre esistenze, di adottare punti di vista inediti per pura e semplice curiosità".

lunedì 25 luglio 2016

Cronache di viaggio: la Villa Medicea di Poggio a Caiano

Come promesso in un precedente post, anche se con un po' di ritardo, ecco il resoconto della mia visita di inizio luglio presso un luogo incantevole, la Villa Medicea di Poggio a Caiano, in provincia di Prato. Ovviamente, corredato dalle mie foto.


Anzitutto, qualche cenno storico. La Villa fu fatta costruire da Lorenzo de' Medici e dai suoi eredi su disegno di Giuliano da Sangallo tra il 1485 e il 1520 circa. Fu la residenza estiva dei Medici e ospitò numerose personalità, oltre ad essere teatro di importanti avvenimenti della storia dinastica medicea, come i festeggiamenti per i matrimoni tra Alessandro de' Medici e Margherita D'Austria (1556), Cosimo I ed Eleonora da Toledo (1559), Francesco I e Bianca Cappello già sua amante (1579).
Alla morte di "Giangastone" (1737), ultimo discendente dei Medici, la Villa passò ai nuovi granduchi toscani, gli Asburgo-Lorena, che continuarono ad utilizzarla come residenza estiva o come punto di sosta durante i loro viaggi verso Prato o Pistoia.
Con la conquista napoleonica, la Toscana divenne parte dell'Impero francese. La Villa subì, quindi, modifiche interne ed esterne (soprattutto ad opera di Pasquale Poccianti) su iniziativa della reggente Maria Luigia d'Etruria e successivamente di Elisa Baciocchi Buonaparte, sorella di Napoleone, dal 1804 principessa di Lucca e di Piombino, e dal 1809 granduchessa di Toscana.
Con la restaurazione, la costituzione del Regno d'Italia e l'avvento dei Savoia, proseguirono i lavori di riordino e le riparazioni da parte di Vittorio Emanuele II che fece costruire nuove scuderie e ridecorare alcune sale al piano terra, oltre a trasformare il grandioso salone Leone X, al primo piano, in una sala da biliardo. Con Vittorio giunse al Poggio anche la "bella Rosina", ossia Rosa Vercellana, una popolana torinese e amante del re, che poi divenne sua moglie.
La Villa è il primo esempio di architettura rinascimentale che fonde lo stile classico con elementi caratteristici dell'architettura signorile rurale toscana e altre caratteristiche innovative. Il corpo dell'edificio è circondato da una terrazza porticata. Alla sommità delle scale si trova una loggia sormontata da un timpano e da una volta a botte finemente decorata a rilievo.


Inizia, così, la visita all'interno. Colpisce immediatamente la ricchezza di elementi decorativi, la maestosità degli ambienti  e lo stato di conservazione di mobili, arazzi, suppellettili. Senza dubbio, la Toscana, nella gestione del proprio patrimonio artistico, ha molto da insegnare.
Al piano terreno, di particolare rilievo la Sala dei Biliardi, in stile sabaudo, con la volta affrescata come un pergolato dal quale si affacciano putti e amorini, mentre su un drappo dipinto sono riportate le insegne reali dei Savoia. Una sala ovviamente  voluta da Vittorio Emanuele.


A destra si accede, quindi, agli appartamenti di Bianca Cappello, una nobildonna veneziana molto colta e raffinata, che ebbe una relazione con il Granduca Francesco I. Questa relazione segreta che coinvolgeva il sovrano della città, già sposato con Giovanna d'Austria, fu uno dei più grandi scandali del Rinascimento e una delle pagine più romanzesche della saga dei Medici.
Nella prima sala di questi appartamenti, una semplice anticamera, sono ospitati tre dipinti a soggetto biblico attribuiti a Paolo Veronese e la Pietà di Giorgio Vasari. Segue la "stanza del Camino" che conserva ancora il bel camino in marmo bianco e lo scalone in pietra serena.


Al primo piano si trova l'ambiente più interessante della Villa: il salone Leone X, posto al centro dell'edificio e terminato intorno al 1513. La decorazione ad affresco è uno dei cicli pittorici più importanti del periodo del manierismo. Il progetto decorativo prevedeva la rappresentazione pittorica di episodi di storia romana che alludessero ad eventi gloriosi della vita politica di Cosimo il Vecchio e di Lorenzo il Magnifico. Colpiscono per la loro magnificenza, due episodi: "Il console Flaminio parla al consiglio degli Achei" e "Il ritorno di Cicerone dall'esilio".


Sempre al primo piano, la Sala da Pranzo, con un grande affresco, opera di Anton Domenico Gabbiani, raffigurante l'opera di pacificazione di Cosimo il Vecchio, padre della patria; l'appartamento di Vittorio Emanuele II, con quattro stanze (Guardaroba, Studio, Sala da Ricevere e Camera da letto); l'Appartamento della Contessa di Mirafiori (la "Bella Rosina") composto da tre stanze con mobilio antico. Il bagno alla francese, opera dell'architetto di corte Giuseppe Cacialli, fu voluto da Elisa Bonaparte Baciocchi e comportò la demolizione di alcune stanze più antiche. Oggi si è ben conservato, con la vasca in marmo con intagli e una scultura di Venere e Amore in una nicchia, oltre al mobilio da toeletta originale.




Intorno alla Villa vi è uno splendido giardino, corredato da un ampio scenario in muratura decorato a stucco, con boschi e fontane, e con presenti centoventi varietà botaniche (agrumi, iris, narcisi, giacinti, dalie, rose antiche).  Il parco, davvero ben tenuto, è un'oasi di pace, nonché meta preferita degli sposi, scenario ideale per le loro fotografie.



Decisamente un luogo da sogno, uno dei tanti posti meravigliosi della nostra bella Italia.

venerdì 22 luglio 2016

La feroce vendetta e la sospensione dei diritti umani

Una delle notizie più rilevanti in questi giorni riguarda il fallito golpe militare in Turchia e la conseguente vendetta del Presidente Erdogan, che da ultimo ha proclamato lo stato di emergenza, ha sospeso l'applicazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e sta minacciando di reintrodurre la pena di morte. Tutto questo accade in una presunta Repubblica che, da anni, dichiara di aver intrapreso un percorso di democratizzazione per entrare nell'Unione europea.
Ma la feroce vendetta di Erdogan è quella tipica dei sistemi totalitari: epurazione di tutti coloro che in qualche modo hanno rappresentato una minaccia nel presunto golpe, ovvero militari, magistrati, dipendenti pubblici, insegnanti, professori universitari, migliaia di persone allontanate dai posti di lavoro, imprigionate, sottoposte a torture e umiliazioni. Per non parlare della libertà giornalistica, da sempre nel mirino del "sultano turco".
Un editorialista del Corriere della Sera ha parlato, in realtà, di un finto golpe, organizzato al fine di consentire ad Erdogan di avere le mani libere e di orchestrare questa epurazione, finalizzata ad eliminare qualsiasi pericolo, qualunque opposizione al suo potere. Il sospetto, in effetti, è abbastanza fondato, considerate le singolari modalità con cui tale golpe è avvenuto.

Indubbiamente, la sospensione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo costituisce l'apice di questa assurda vicenda. In passato, tale sospensione è accaduta raramente, ad esempio nel periodo della cosiddetta "dittatura dei colonnelli" in Grecia dal 1967 al 1974, in cui la giunta militare soppresse le normali libertà civili, sciogliendo i partiti politici, imprigionando o esiliando gli oppositori politici, usando la tortura come pratica comune.
In Turchia, la pena di morte era stata completamente abolita nel 2004. La sua reintroduzione in questo contesto potrebbe, per assurdo, portare il Paese a situazioni davvero estreme, simili a quelle che si verificano in Stati come l'Arabia Saudita, in cui la pena di morte viene applicata per tantissimi reati (oltre all'omicidio, anche stupro, rapina a mano armata, traffico di droga, stregoneria, adulterio, sodomia, omosessualità, rapina su autostrada, sabotaggio e apostasia), senza alcuna garanzia processuale.
Di fronte al completo annientamento dei diritti umani, l'Occidente, inclusa l'Europa, appare inerte. Forse perché non è conveniente mettersi contro un Paese che possiede il secondo esercito della Nato?

domenica 17 luglio 2016

Jules Bianchi, un anno dopo

Ci sono post che vengono scritti d'impulso, a seconda delle emozioni del momento e altri che, invece, vengono meditati per un po' di tempo per poi vedere finalmente la luce, pur nascendo anche essi da emozioni importanti. Questo post appartiene alla seconda categoria e non poteva vedere la luce, se non oggi.
Esattamente un anno fa Jules Bianchi se ne andava, dopo aver lottato per alcuni mesi per cercare di sopravvivere ad un incidente automobilistico che gli aveva procurato danni cerebrali talmente gravi da farlo precipitare in un coma profondo.


Ricordo bene quel giorno, il 5 ottobre 2014. Ero a casa e stavo ascoltando la radio, mentre facevo un po' di pulizie, quando all'improvviso fu dato il drammatico annuncio: nel corso del Gran Premio del Giappone un pilota venticinquenne, di nome Jules Bianchi, era uscito di pista con la sua auto andando a sbattere contro una gru mobile intenta a rimuovere la Sauber di Adrian Sutil, uscito di pista il giro precedente (una gru che non doveva assolutamente trovarsi in quella posizione).
Trasportato immediatamente in ospedale, fin da subito le sue condizioni erano apparse gravissime, per cui venne operato per ridurre l'ematoma al cervello.
In quei momenti avvertii un forte senso di angoscia, una sensazione da cui non riuscii a liberarmi per diverse settimane. Un ragazzo sempre sorridente, bello, gentile, che aveva tutta la vita davanti e tanti sogni da realizzare, una vita che rischiava di essere distrutta per colpa di una gara sportiva e per la fatale disattenzione degli organizzatori.
Cercai su Internet alcune notizie su di lui: Jules era nato a Nizza, ma aveva origini italiane, suo nonno, Lucien Bianchi, era morto nel 1969 durante le prove al Circuito di Le Mans (ironia del destino). Aveva dimostrato un grande talento nell'automobilismo, al punto che la Ferrari lo avrebbe voluto nella sua scuderia.
Le settimane successive passarono tra bollettini medici poco rassicuranti, che parlavano di un danno assionale diffuso (che lasciava presagire conseguenze terribili), dimostrazioni di affetto dei tifosi sui social, polemiche contro la direzione di gara, colpevole di non aver sospeso la corsa nonostante il temporale che aveva ridotto notevolmente la visibilità. La FIA, dopo un'inchiesta, assolse i direttori, come se la colpa fosse solo di Jules che aveva accelerato troppo e non era riuscito a frenare in tempo. Ma in questi casi, i responsabili fanno presto a lavarsi la coscienza e a scaricare sugli altri le colpe.


Affezionarsi ad una persona mai conosciuta dal vivo può sembrare strano, ma in fondo capita molto più spesso di quanto crediamo. L'empatia, come hanno dimostrato i tanti tifosi che hanno sostenuto la famiglia Bianchi in quei terribili mesi, è un dono non così raro.
In quelle settimane, iniziai a leggere diversi articoli sui vari danni cerebrali e sui loro effetti, ripensando a ciò che era capitato ad alcuni miei conoscenti e al modo con cui si erano ripresi da questi danni, e mi chiedevo cosa sarebbe capitato a Jules: sarebbe morto o avrebbe vissuto come un vegetale o si sarebbe ripreso pur rimanendo paralizzato e con altri gravi danni permanenti? I bollettini medici e le parole dei genitori di certo non lasciavano presagire una guarigione completa, soprattutto perché i mesi passavano e il ragazzo rimaneva in coma.
Come per tutti i fatti drammatici, anche per questo incidente, col trascorrere del tempo, i giornalisti cominciarono a provare disinteresse. Triste da pensare, ma alla fine il loro lavoro è occuparsi di notizie sempre fresche.
Il silenzio venne interrotto un sabato mattina, il 17 luglio 2015. Jules, dopo nove mesi, aveva smesso di lottare ed era morto. In fondo, pensai che l'alternativa, ormai, era non vivere continuando a rimanere in coma vegetativo.
Ho letto poco tempo fa che i genitori di Jules vorrebbero far causa alla FIA, ma questo non riporterà indietro il loro ragazzo, anche se forse avranno giustizia. È bello, invece, sapere che oggi la Ferrari lo ha ricordato insieme ai tifosi e che forse da un errore così assurdo, che ha portato alla tragica morte di un ragazzo di soli venticinque anni, si possa imparare qualcosa.
Ciao Jules, ovunque tu sia!

giovedì 7 luglio 2016

La grande famiglia a caccia di incarichi

Ho letto pochi minuti fa un interessante resoconto di tutti i parenti che il Ministro Alfano sarebbe riuscito a sistemare: non solo il fratello, di cui tanto si parla in questi giorni, ma anche la moglie e il padre, fino ad arrivare ai parenti più lontani. L'articolo parla di un "vero e proprio cerchio magico a caccia di incarichi e posti di rilievo".
Non ho idea di quali conseguenze ci saranno per il Ministro, anche se c'è chi parla di richiesta di dimissioni.
Ma in fondo qual è la novità? Le raccomandazioni di amici e parenti sono sempre esistite: i pochi eletti occupano posti di rilievo senza averne alcun merito, mentre la moltitudine deve faticare per avere uno straccio di lavoro spesso precario e con una misera paga. Ad esempio, non è un mistero per nessuno il fatto che in ambito universitario alcune cattedre siano addirittura ereditarie, mentre i ragazzi che vogliono fare ricerca devono patire la fame e arrangiarsi come possono con lavoretti aggiuntivi.
Certamente, deve indurre ad un'attenta riflessione il fatto che un atteggiamento del genere venga adottato dal Ministro di un Governo che si fregia di aver riformato il mercato del lavoro aumentando i posti per i giovani. Se, poi, i posti aumentano e vengono tutti occupati dalla stretta cerchia dei soliti noti, questo non sembra essere un problema per il Governo.
Singolare è anche la difesa di Lupi, dimessosi tempo fa dalla sua carica ministeriale sempre per vicende familiari: anche lui parla di sciacallaggio mediatico e di intercettazioni date in pasto ai giornali, di barbarie e di fraintendimenti.  Sicuramente, ogni persona deve essere considerata innocente, fino a prova contraria, ma quando le voci cominciano ad essere tanto insistenti e diffuse, un fondo di verità c'è sempre.
Intanto, il Ministro Alfano si è "dimenticato" di presentare il "decreto ponte" contenente le istruzioni necessarie per celebrare le unioni civili, in attesa dei decreti attuativi. Come sempre, ci sono altre priorità, cose più urgenti da fare (come sistemare i parenti), i diritti civili possono aspettare. 

lunedì 4 luglio 2016

Cronache di viaggio: Terra di Siena

Capita molto spesso di rimanere in un determinato posto per anni e di non riuscire ad apprezzarlo davvero. Questo è quanto mi è capitato vivendo a Siena per otto anni per gli studi universitari e i successivi corsi di specializzazione: correndo in continuazione per andare a lezione, passavo vicino splendide chiese e storici monumenti dando quasi per scontata la loro esistenza.
Da quando vivo a Roma, invece, ho cominciato ad apprezzare molto di più la Toscana, ricca di luoghi incantevoli e non sempre adeguatamente pubblicizzati. E la settimana scorsa, in visita a mio fratello, ho avuto modo di fare il "turista per caso" a Siena e dintorni, esercitandomi anche nell'arte della fotografia.
Iniziamo dal pomeriggio di venerdì (1° luglio). Partendo da casa, siamo arrivati passeggiando e utilizzando una comoda scala mobile, nei pressi di Porta Camollia, una delle antiche porte nelle mura di Siena, situata alla fine di via di Camollia, nel territorio della Contrada dell'Istrice. Il suo nome è legato al leggendario condottiero Camulio, inviato da Romolo nel VII secolo a.C e insediatosi con il proprio accampamento nella zona dove sorge l'attuale Porta. Nel corso dei secoli fu la porta più difesa della città di Siena, essendo la porta cittadina d'ingresso per chi proveniva da Firenze. L'attuale costruzione risalente al 1604 fu progettata da Alessandro Casolari e decorata dallo scultore Domenico Cafaggi.
Ovviamente, in periodo di Palio, la Porta è chiusa per i vari festeggiamenti e, quindi, siamo stati costretti a fare un giro un po' più largo per entrare nel centro cittadino dentro le mura.


Siamo giunti, quindi, in Piazza Matteotti, "storico" luogo di ritrovo con gli amici per le uscite serali. In questa Piazza, spicca, in particolare, il Palazzo delle Poste. In precedenza, la sede delle Poste si trovava in Piazza Salimbeni, nell’attuale salone principale del Monte dei Paschi, ma con il tempo se ne riscontrò l’inadeguatezza funzionale, per cui si decise di costruire un nuovo palazzo dedicato esclusivamente a tale scopo. Il luogo ideale era la piazza, allora intitolata alla memoria di Re Umberto I e oggi dedicata a Giacomo Matteotti, ricavata, a seguito della sistemazione urbanistica della zona, grazie alla demolizione della chiesa di Sant’Egidio e del convento delle Cappuccine. La progettazione fu affidata all’architetto Vittorio Mariani e la costruzione all’impresa edile senese di Pietro Ciabattini. Nel mese di settembre del 1910 vi fu la cerimonia per la posa della prima pietra. L’inaugurazione del palazzo concluso avvenne all’incirca due anni dopo, il 20 Settembre 1912.


Lungo Via Banchi di Sopra, immancabile la sosta dinnanzi alla Rocca Salimbeni, storica sede centrale della Banca Monte dei Paschi, che negli ultimi anni non sta attraversando un periodo finanziariamente felice. La Rocca fu edificata nel XIV secolo, ampliando un castellare della famiglia Salimbeni preesistente del XII o XIII secolo, appoggiato alle mura altomedievali nei pressi della chiesa di San Donato. Nel 1419 il palazzo fu confiscato dalla Repubblica senese e in parte adibito a Dogana del Sale e ufficio di Gabella. Dal 1472 vi ebbe sede anche il Monte Pio (Monte di Pietà), istituito per porre un freno alla diffusa pratica dell'usura. Nel 1866 il Monte Pio fu incorporato dal Monte dei Paschi, che acquistò la proprietà del palazzo, facendone appunto la sua sede centrale. Fu, quindi, restaurato in stile neogotico dal 1877 da Giuseppe Partini, che demolì alcuni corpi e ne sopraelevò altri, aggiungendo strutture e paramenti in stile antico. Ancora nel Novecento fu condotto un restauro da Carlo Ariotti e Vittorio Mariani. Tali rimaneggiamenti hanno cercato di riprodurre lo stile della Siena del Trecento, con le trifore sotto archi a sesto acuto, la merlatura in alto e la fila ininterrotta di archi ciechi sotto di essa.


Sempre lungo Via Banchi di Sopra, altro monumento degno di nota è il Palazzo Tolomei, il più antico palazzo privato di Siena. La sua costruzione era già in corso nel 1205, mentre fu restaurato dopo il 1267; il Palazzo è oggi sede di una banca e di alcuni uffici. L’edificio è stato costruito tutto in pietra e in stile gotico, presenta una facciata suddivisa in due piani ed aperta da due ordini di bifore trilobate ad archi acuti. Tale Palazzo ricorda la grandezza della famiglia Tolomei a Siena quando primeggiava tra i Guelfi ed ospitava Roberto d'Angiò, re di Napoli. A questa famiglia appartenne la notissima Pia che, per la sua triste vicenda, fu celebrata da Dante nel V canto del Purgatorio della Divina Commedia.


Arrivati nei pressi di Piazza del Campo, non si può non rimanere colpiti dalla Loggia della Mercanzia, composta da tre arcate su pilastri decorati, con le facce recanti tabernacoli con statue. Le due statue sui pilastri esterni della loggia raffigurano San Pietro e San Paolo e sono del Vecchietta; le altre tre statue raffigurano tre dei quattro antichi santi protettori della città, San Savino, Sant'Ansano e San Vittore, e sono di Antonio Federighi. La loggia fu progettata da Sano di Matteo e costruita tra il 1417 e il 1428 sotto la sua direzione, poi dal 1428 al 1444 sotto Pietro del Minella, in uno stile di transizione tra gotico e rinascimento.


Piazza del Campo, come si può notare nella foto sotto, era temporaneamente inaccessibile per le prove del Palio.



Abbiamo, quindi, proseguito il nostro giro turistico lungo Via di Città, fino a Palazzo Chigi Saracini, sede dell'Accademia Musicale Chigiana, oltre che di un'importante raccolta di arte privata, la Galleria Chigi - Saracini. Per l'occasione, il Palazzo era decorato con le bandiere delle Contrade.
Il nucleo più antico del palazzo, del XII secolo, apparteneva alla famiglia Marescotti, ghibellina. Progressivamente l'edificio andò ingrandendosi inglobando altri edifici adiacenti, raggiungendo le dimensioni attuali entro la prima metà del Trecento. Nel XVI secolo, fu acquistato dalla famiglia Piccolomini del Mandolo, che lo ampliò realizzando decorazioni raffaellesche nel loggiato esterno. Dopo il 1770 la famiglia Saracini allungò la facciata mantenendo lo stile trecentesco, aggiungendo anche la fila di trifore fino al vicolo del Trone. Lo stile della facciata è l'elegante gotico senese, rivestito in pietra fino al primo piano e poi in laterizi.


La visita a Piazza del Duomo non poteva ovviamente mancare con lo splendido Duomo, in stile romano gotico e la cui costruzione è durata secoli; l'ex ospedale di Santa Maria della Scala, fondato per dare ospitalità ai pellegrini, assistere i poveri, i malati e accogliere i fanciulli orfani, divenuto nel frattempo museo; il Palazzo Reale, fatto edificare nella seconda metà del Quattrocento da Jacopo Petrucci, che aveva acquistato alcuni edifici di proprietà dell'Ospedale Santa Maria della Scala per trasformarli nella sua dimora cittadina, e divenuto sede, dall'Unità d'Italia, della Prefettura e dell'Amministrazione provinciale senese.




Infine, eccoci nel cuore della città, Piazza del Campo, ancora affollata di turisti ansiosi di assistere al Palio (per la cronaca poi vinto dalla Lupa). Da notare, la foto del seggio del mossiere, la cui pazienza nel far entrare i cavalli nel canapo per dare il via alla corsa è abbastanza nota.



Nel prossimo post, una descrizione della meravigliosa Villa Medicea a Poggio a Caiano.

venerdì 24 giugno 2016

Brevi riflessioni dopo la Brexit

Il popolo britannico ha deciso, anche se con una ristretta maggioranza: la Gran Bretagna è fuori dall'Unione Europea.
Le conseguenze sotto il profilo finanziario ed economico di questo strappo non sono facili da analizzare. Incerto è anche il destino di molti italiani che da anni lavorano in territorio britannico.
Ma vi è una certezza, purtroppo, l'esultanza dei nazionalisti che brindano al trionfo dell'indipendenza, non solo gli inglesi protagonisti principali di questo evento, ma anche olandesi, francesi e il nostro italiano Salvini che in questo momento starà certamente preparando un referendum analogo a quello inglese.
Il fonte antieuropeista non può più essere ignorato, anzi ne esce rafforzato. Sappiamo bene come esso si nutra del malcontento di gran parte della popolazione che nell'Unione europea ha sempre visto i lati negativi: l'austerity, le manovre finanziarie, i sacrifici imposti nel nome della sostenibilità di un progetto di unificazione nato, in ogni caso, con i migliori auspici.


Non dimentichiamoci che i nazionalismi in Europa hanno portato a due guerre mondiali, con milioni di morti e distruzione. L'Unione europea è il frutto di un lungo cammino intrapreso dopo aver preso coscienza dell'assurdità di queste guerre, un progetto finalizzato a raggiungere un obiettivo di libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali all'interno del suo territorio, di promozione della pace e del progresso. Per questi motivi, il 12 ottobre 2012 la UE è stata insignita del premio Nobel per la pace, in quanto "per oltre sei decenni ha contribuito all'avanzamento della pace e della riconciliazione della democrazia e dei diritti umani in Europa".
Il progetto può negli anni non aver raggiunto pienamente il suo obiettivo, ha bisogno di essere ripensato con la collaborazione di tutti. Ma abbandonarlo dimostra solo vigliaccheria, oltre ad un'assurda inconsapevolezza delle conseguenze di tale decisione.
E la vigliaccheria è ben presente nelle parole di Farage, leader del partito euroscettico Ukip: "Abbiamo vinto senza sparare un solo proiettile, combattendo sul territorio". Non dimentichiamoci che la povera deputata Jo Cox è stata uccisa da un fanatico nazionalista favorevole all'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. Altro che vittoria senza sparare un solo proiettile!

lunedì 20 giugno 2016

Predicare e diffondere amore: un precetto applicato da tutti?

Mi riprometto sempre di non parlare più di attualità e di dedicarmi agli argomenti che mi interessano maggiormente (libri, musica, arte), ma poi accade sempre qualcosa che mi trascina nuovamente alla realtà quotidiana. Ma procediamo con ordine.
Nel precedente post, ho accennato alle mie idee in fatto di religione che vorrei chiarire meglio. Secondo la mia opinione, le persone "umane" (ovvero quelle che provano sentimenti di altruismo, generosità, solidarietà, lealtà, empatia e potrei continuare a lungo) non sono necessariamente credenti, l'assenza di fede non implica assenza di sensibilità, anzi la capacità di riconoscere il bene e di metterlo in pratica prescinde da qualsiasi fede religiosa. A sua volta, la fede in qualcosa di ultraterreno è un elemento aggiuntivo che, se vissuto in maniera autentica e non solo per il timore della "dannazione eterna", può anche essere gratificante, purché abbinato a quella sensibilità di cui parlavo prima. Una sensibilità che ci porta ad avere rispetto degli altri, senza giudicarli (come spesso ci ricorda Papa Francesco).
Si può tranquillamente affermare, quindi, che non tutte le persone credenti purtroppo sono "umane", soprattutto quando tradiscono il precetto fondamentale che una religione che possa definirsi tale generalmente tramanda, ovvero amare gli altri.
Don Pusceddu ne è un esempio eclatante. Nella sua omelia, questo "simpatico" prete cagliaritano ha detto che gli omosessuali meritano la morte, "poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E, pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa".


Queste parole piene di odio parlano da sole. Gli insulti rivolti agli omosessuali dimostrano come questo personaggio non conosca affatto il mondo di cui sta parlando, nutrendosi solo di preconcetti alterati da una fanatica esaltazione religiosa, non lontana dai rigurgiti fascisti e nazisti di cui si parla spesso.
Ma, come se non bastasse, Alberto Agus, ex candidato sindaco di Cagliari per il Popolo della famiglia (un adepto di Adinolfi per intendersi), meravigliandosi del caos mediatico causato dalle parole di Don Pusceddu, ha affermato che il prete ha solo  esercitato  il suo diritto a confessare il proprio credo religioso e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Chi lo accusa di augurare la morte agli altri non ha voluto cogliere la differenza tra "morte spirituale e morte fisica".
Dunque, l'esaltazione fanatica intrisa di rancore viene difesa come libertà religiosa. Tuttavia, di fronte a tutto questo odio, mi chiedo: l'amore e la misericordia che la Chiesa dovrebbe predicare sono solo belle parole? Probabilmente sì, così come sono solo belle parole i precetti di povertà e umiltà (che nell'attico di Bertone si praticano poco), per non parlare della castità.
Mi chiedo se qualcuno abbia ancora il coraggio di dire che sono gli Islamici ad odiare gli omosessuali.


martedì 14 giugno 2016

Il giorno dopo, per non dimenticare

All'indomani di ogni evento drammatico, la coscienza popolare sembra  ritornare subito alla tranquillità. Al momento della notizia, lo smarrimento e l'incertezza, poi nel pomeriggio il diffondersi di opinioni disparate e la mattina successiva la calma apparente (a parte alcune eccezioni).
Non vorrei ripetere quello che è stato detto in altri blog, ma credo assolutamente che non ci si debba abituare alle stragi, né tantomeno pensare che alcune vittime siano più degne di rimpianto di altre.
Chi è morto in quel locale non era "solo" gay, come qualche omofobo sta dicendo in queste ore, era un figlio, un fratello, aveva amici, aveva una vita che è stata spazzata via. Ieri, mi è venuta in mente questa riflessione: l'orientamento sessuale è un po' come il colore degli occhi o dei capelli, lo si può nascondere, alterare, ma fa parte della nostra natura e prima o poi  emerge chiaramente e diventa una parte integrante del nostro modo di agire. E, lo ripeto ai soliti omofobi, bisogna farsene una ragione, non è una "macchia", è una parte di noi, insieme a tutte le altre caratteristiche che ci rendono persone uniche e irripetibili.
In queste ore, stiamo insistendo nel cercare una ragione alla strage di Orlando, la religione, l'omofobia, il terrorismo. Ma l'odio non ha bisogno di questi pretesti, si diffonde come la fiamma innescata da una miccia gettata su un po' di benzina da chi predica i propri falsi moralismi e incita alla violenza, nascondendosi dietro il paravento della propria ignoranza.
Qualcuno sta facendo i nomi di chi ha le mani "insanguinate" per le proprie opinioni diffuse con violenza (inutile elencarli, sono sempre i soliti noti) per metterli "alla berlina". Io suggerirei di smetterla di farci divorare dall'odio, anche se qualcuno dovrebbe cominciare a farsi un serio esame di coscienza, sempre che ne abbia mai avuta una.
Non credo nemmeno che si debba incolpare la religione in quanto tale, commettendo l'errore di un personaggio mediocre come Trump. Perché continuare a dire che gli islamici vanno mandati via e messi al bando?
La meravigliosa Margherita Hack diceva che "non è necessario avere una religione per avere una morale. Perché se non si riesce a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione". Io aggiungerei che chi ha tale sensibilità è in grado di capire che la fede deve essere semplicemente un mezzo di conforto, di cui in fondo tutti abbiamo bisogno.
Chi strumentalizza la religione per ricattare le coscienze (e non parlo solo degli islamici, anzi!), sta semplicemente cercando di legittimare la propria iniquità. E coloro che vivono la fede in maniera autentica nel rispetto degli altri rischiano persecuzioni simili a quelle che si sono ripetute nel corso dei secoli. Perché, come diceva Montale, "la storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice".

domenica 12 giugno 2016

La terra è un solo paese, siamo onde dello stesso mare

Pochi giorni fa un mio amico ha pubblicato su Facebook questa foto scattata nel Parco Sigurtà, antico giardino nei pressi di Peschiera del Garda, le cui origini risalgono al 1400.
La foto ritrae una targa con un chiaro messaggio di fratellanza "La terra è un solo paese, siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino".

Foto di Alessandro Toldo

Dovrebbe essere davvero così, la terra dovrebbe essere un unico paese senza rigidi confini in cui vivere in pace, ma sappiamo bene che la Storia è costellata di guerre fratricide, lotte per la conquista del potere, genocidi, discriminazioni razziali. E si può certamente affermare che gli insegnamenti che la Storia ci ha tramandato non sempre sono stati ben assimilati, considerato il dilagare di nostalgici nazionalisti che mirano a minacciare l'integrazione europea faticosamente raggiunta.
Oggi la situazione dei migranti che fuggono dalla povertà e, soprattutto, dalla guerra non può lasciarci indifferenti. È abbastanza chiaro e pacifico che il problema non sia di facile soluzione e che non possa essere affrontato solo dall'Italia. Ma costruire muri, fatti soprattutto di odio, non è degno di un genere che ha ancora la pretesa di definirsi umano.
Ci sono tanti pregiudizi nei confronti degli stranieri che arrivano in Italia, pregiudizi che dovremmo incominciare a mettere da parte. Anzitutto, non tutti gli immigrati vengono qui per delinquere, come è solito pensare chi "fa di tutta un'erba un fascio". Ci sono sicuramente soggetti pericolosi o malintenzionati, ma questi individui si trovano in tutte le popolazioni, inclusa quella italiana, e spesso occupano posizioni al di là di ogni sospetto. Certamente, se iniziassimo a mandar via o a punire seriamente tutti coloro che compiono atti illeciti (stranieri e non), il Parlamento italiano rimarrebbe semivuoto.
Si dice sempre, poi, che gli stranieri vengono qui a rubarci il lavoro. In realtà, mi viene da pensare che quasi sempre finiscono per fare quei lavori che gli Italiani si rifiutano ormai di svolgere, non essendone magari all'altezza. Ricordo che l'impresa che tempo fa stava realizzando alcuni lavori a casa nostra mandò un muratore rumeno che svolse il suo operato in maniera precisa, ineccepibile, sicuramente meglio di ciò che avrebbero potuto fare i colleghi nostrani. In ogni caso, gli immigrati finiscono spesso per diventare preda degli sfruttatori e vengono utilizzati per lavori di fatica con paghe miserevoli, per non parlar di altro. Basta guardare la situazione di Rosarno.
Infine, una frase che si sente spesso pronunciare negli ultimi tempi è "aiutiamoli a casa loro". In proposito, Giuseppe Civati ha pubblicato di recente sulla sua pagina Facebook questo grafico (tratto dalla Stampa), in cui risulta abbastanza chiaro che, pur in presenza di una legge del 1990 sul controllo delle armi, che ne vieta l’esportazione in Paesi in cui è in corso un conflitto armato, ancora oggi l’Italia vende pistole e fucili in numerosi Paesi. Questa tendenza è aumentata dal 2009, per cui l’Italia ha venduto armi soprattutto in Medio Oriente e nel Nordafrica, regioni tra le più turbolente, mentre le autorizzazioni del Parlamento sono aumentate. Come giustamente sottolineato da Civati, "per la serie: «aiutiamoli a casa loro». Con le bombe. Intanto manca completamente la trasparenza, la serietà, la politica. Poi dopo ci si sorprende delle migrazioni forzate, delle tragedie umanitarie, dei campi profughi, della tensione che non si abbassa mai".
Se è vero che dal 2009 questa tendenza è aumentata con il beneplacito del Parlamento, occorrerebbe ricordare a Salvini, che continua a diffondere messaggi razzisti e xenofobi, che il suo partito faceva parte della maggioranza di Governo in quegli anni. Le morti dei profughi in mare dovrebbero cominciare a pesare sulle coscienze di chi ha favorito questo commercio.

mercoledì 8 giugno 2016

La vera indifferenza

In questi giorni, il terribile omicidio di Sara ha notevolmente scosso l'opinione pubblica che ormai si esprime quasi principalmente attraverso i social. La mia impressione, condivisa anche da altri utenti, è che le principali invettive questa volta siano state indirizzate, almeno in una prima fase, alle auto che quella maledetta sera sfrecciavano veloci, indifferenti alle richieste di aiuto della ragazza.
Io mi auguro, invece, che non si dimentichi mai, anche se sono trascorsi alcuni giorni e la coscienza popolare sembra essersi tranquilizzata, che la povera Sara è stata l'ennesima vittima di quella terrificante "cultura" della violenza e del maschilismo di coloro che credono di poter disporre degli altri come fossero oggetti.
Addossare gran parte della responsabilità ai passanti, che non si sono fermati per paura o incapacità di realizzare cosa stesse realmente accadendo, significa distogliere l'attenzione dal vero problema della inarrestabile violenza contro le donne e, più in generale, contro tutti coloro che non sono in grado di difendersi. Persone come Sara andrebbero aiutate prima di ritrovarsi sul ciglio di una strada a fuggire da un maniaco incendiario o in preda ad un compagno folle che fa bere loro soda caustica per farle abortire, come accaduto in provincia di Bologna.

Progetto Fondazione Scarpe Rosse contro la violenza sulle donne

Io credo, poi, che la vera indifferenza più che tra quei passanti, debba essere ricercata altrove, assieme ai motivi da cui questa indifferenza trae origine.
Non condivido l'affermazione secondo cui è la società che ci ha resi ciechi e indifferenti, perchè si tratta di una banalità sconcertante: siamo noi a creare la nostra società e possiamo migliorarla grazie al contributo collettivo, considerato che le istituzioni sociali non sono una mera entità esterna che ci viene imposta dall'alto. Affermare che la colpa è tutta della società significa semplicemente tentare di lavarsi la coscienza.
La vera indifferenza sta nella incapacità di ciascuno di noi di capire se le persone che ci sono vicine ogni giorno hanno realmente bisogno di aiuto. Questo non vuol dire necessariamente dar loro un po' di denaro, perchè a volte è sufficiente una parola di sostegno o di conforto. Non significa nemmeno diventare eroi - come diceva Manzoni, se uno il coraggio non ce l'ha non se lo può dare – anche se certamente acquisire quella consapevolezza che ci porta a chiamare le forze dell'ordine ogni volta che avvistiamo una situazione di pericolo potrebbe essere già un bel traguardo.
Quando il Papa ha parlato di indifferenza, molti si sono concentrati su alcune sue parole, ritenendo che stesse invitando i fedeli a non amare gli animali, mentre il suo vero obiettivo era far comprendere che spesso siamo talmente presi dalle nostre vite che ci dimentichiamo di chi ci sta vicino.
Un episodio di alcune settimane fa, cui i notiziari hanno dato solo un breve cenno, è un esempio drammatico della vera indifferenza. Un uomo è stato ritrovato in casa morto da almeno cinque anni. Nel frattempo, nessuno si era accorto di nulla, nè si era chiesto cosa fosse accaduto a quell'uomo che non si faceva vedere da anni. I vicini non hanno mai pensato di andare a bussare a quella porta per chiedere se ci fosse bisogno di aiuto. Una perdita d'acqua e il successivo intervento dei vigili del fuoco hanno rivelato quella situazione di estrema solitudine e abbandono.
Credo che questo non sia un caso isolato, chissà quanti episodi simili, seppure non così estremi, si verificano quotidianamente. Ma difficilmente potremmo saperlo con certezza, perchè questi episodi generalmente non fanno notizia, se non poche righe nei giornali locali, e non finiscono in pasto agli pseudo moralisti da salotto che dalle loro comode posizioni non fanno altro che condannare la società senza poi compiere alcuna azione concreta per cambiarla.
Questa frase di Einstein dice più di tanti discorsi.