"Mia madre è un fiume. Erano un fiume i suoi capelli scuri e
sottili che la corrente divideva ai lati del viso, onde a cascata sul
seno, li pettinava la sera, dopo tutte le fatiche. Camminava e
cantava, il fiume a fluttuare nel vento, ma solo qualche volta, di
solito li raccoglieva in una crocchia. Intorno ai trent'anni tagliò
i capelli per sempre, divennero insignificanti, pratici.
Era
un ruscello. Ne scorreva uno non lontano da casa sua e nelle più
serene notti d'estate apprezzava la cascatella dalla finestra aperta,
mentre i cani stavano zitti.
È un fiume di vecchi ricordi salvati, che ripete a tutti. Ci si
afferra forte perché la sua storia non deflagri. Restano pochi,
adesso. Mi occupo della sua supplenza, sono il suo scriba.".
"Mia madre è un fiume", l'esordio del 2011 della
scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio, è un romanzo di
forte impatto emotivo, il racconto di un rapporto tra madre e figlia,
denso di suggestioni poetiche, sospeso tra i timori di un futuro
incerto, segnato dalla malattia della madre, e le malinconie e i
rimpianti di un passato da ricostruire nella memoria.
Il loro è un amore che "è andato storto, da subito",
un rapporto che ha attraversato diverse fasi, con una madre sempre
dedita al sacrificio, che non è riuscita a trovare il tempo o forse
non ha avuto la volontà di stare vicino alla sua bambina; una figlia
che trasforma il desiderio di cercare sua madre, di stringersi al suo
"odore di contadina giovane e sana", in un rifiuto
ribelle, specialmente quando la madre inizia a divenire più
autoritaria e opprimente, in preda a un ansioso bisogno di controllo.
La figlia, ormai diventata adulta, avrebbe voluto affrontarla, fare i
conti con il passato, ma la madre le sfugge, scivola via in una
malattia tremenda, un'atrofia cerebrale che le consuma pian piano il
cervello, i ricordi, le capacità, la propria identità, la vita
stessa. E adesso tocca alla figlia assisterla e soprattutto
raccontarle ogni giorno di quel passato che sembra fuggire via,
aiutarla a ricostruire un'identità che si sta man mano sfaldando.
Il racconto non si basa, quindi, su di un impianto narrativo
classico, ma è un flusso di pensieri e ricordi che va avanti e
indietro nel tempo e che non può che partire dal principio: "Ti
chiami Esperia Viola, detta Esperina. Come una viola sei nata il
venticinque marzo millenovecentoquarantadue, in una casa al confine
tra i comuni di Colledara e Tossicia".
Il romanzo è privo di qualsiasi discorso diretto, di dialoghi
propriamente detti. È la figlia che parla, in un monologo continuo
che ci restituisce le parole e le sensazioni di sua madre, facendole
emergere da una mente quasi smarrita, che fa fatica a orientarsi
nello spazio e nel tempo.
Lo stile della Di Pietrantonio è sobrio, privo di manierismi,
incisivo, ma capace, comunque, di rappresentare efficacemente la
realtà contadina abruzzese, tra immagini poetiche e musicali di uno
scenario naturale unico, un linguaggio particolare che ripesca
numerosi termini dal dialetto, descrizioni, a volte brutali e
crudeli, di una vita di campagna faticosa, stremante, a volte
frustrante.
Il racconto della figlia ricostruisce luoghi, episodi, personaggi che
hanno fatto da sfondo alla vita di sua madre e poi alla sua: i
genitori di Esperina, con il padre Fioravante, che inizialmente
riesce a vedere le sue figlie solo durante le licenze di guerra, il
suo carattere autoritario, il desiderio di portarsi avanti nella
conquista della modernità, di far studiare le sue bambine,
mandandole a scuola e comprando loro libri, emancipandole
dall'analfabetismo. E poi il rapporto tra Esperina e le sorelle,
fatto di complicità e dispetti; le lunghe passeggiate nei boschi per
arrivare a scuola; l'amore con Cesare suo cugino; i matrimoni, i
riti, le credenze; la faticosa vita di campagna, l'emigrazione, la
lunga lontananza da casa dei maschi della famiglia per cercare lavoro
in Germania; le angherie dei padroni verso i mezzadri. Un patrimonio
vitale di ricordi e suggestioni nello scenario di una natura vivida,
rigogliosa, ma spesso crudele verso i contadini che cercano
faticosamente la loro indipendenza economica.
La figlia si rivolge direttamente alla madre quando rievoca il
passato, cercando di ricostruirlo rinsaldandone i ricordi. Ma poi
parla di Esperina in terza persona quando, timorosa e angosciata, ne
analizza la malattia: "Mi guardo intorno con gli occhi di mia
madre. La casa diventa estranea ostile. Nasconde, fa i dispetti, non
è sicura. La abita una forza maligna che crea disordine e le comanda
cose strane.". È combattuta tra un'ostilità che ancora
affiora, un odio per un rapporto fatto di contrasti mai risolti e non
più affrontabili, e la paura di perderla e di osservarla mentre si
smarrisce nella nebbia che le avvolge la mente; tra il timore che
anche il suo futuro possa essere segnato dalla stessa malattia e i
sensi di colpa per la sua incapacità di darle ciò di cui ha
bisogno: "Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado
costruendo giorno per giorno. Sarà pronta per il suo funerale. La
colpa è vuota. È il vuoto delle mie omissioni. Ometto l'amore, le
mani. La cura di cui più ha bisogno, lascio che le manchi.".
"Mia madre è fiume" è, quindi, un romanzo
bellissimo, che mi colpisce per la profonda capacità di analizzare
il rapporto tra le due donne senza trascendere in una artificiosa
pateticità o nell'affettazione, con uno sguardo che a volte può
apparire cinico, duro, ma da cui emergono sensazioni autentiche, pur
se dolorose e destabilizzanti.
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