«Che un delitto si offra agli
inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire,
stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una
sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi
cui buona parte dell'umanità si abbevera. Nella realtà le cose
stanno però diversamente: e i coefficienti di impunità e
dell’errore sono alti non perché (o non soltanto, o non sempre) è
basso l'intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un
delitto offre sono di solito assolutamente insufficienti. Un delitto,
diciamo, commesso o organizzato da gente che ha tutta la buona
volontà di contribuire a tenere alto il coefficiente di impunità.
Gli elementi che portano a
risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di
gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione
anonima, il caso. E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli
inquirenti».
Leonardo Sciascia, nato a
Racalmuto nel 1921 e morto a Palermo nel 1989, è una delle grandi
figure del Novecento italiano ed europeo e con le sue opere ha dato
vita a una mirabile, affascinante e originale contaminazione tra
romanzo giallo e romanzo di denuncia civile.
Mediante un'assidua
frequentazione giovanile della biblioteca del suo paese e la lettura
di numerosi classici tra cui Diderot e Manzoni, Sciascia giunse a
una solida formazione letteraria che i critici definirono di stampo
illuminista e moralista. Egli era considerato, infatti, un
illuminista in quanto credeva fortemente nella
ragione e nella libertà, e un moralista per la sua tendenza a
frugare nelle pieghe dell'anima nel tentativo di capire le
motivazioni dell'agire umano e le sue sensazioni.
L'illuminismo di Sciascia si
distacca, tuttavia, dai suoi maestri francesi per la sua venatura
pessimistica, pur rimanendo ferma la fiducia nell'attitudine
dell'uomo a comprendere e giudicare: se Diderot confida nella
possibilità che la società e il singolo progrediscano, Sciascia
nutre il dubbio che tutto sia bloccato e immodificabile, pur lottando
per il progresso e la verità. Di fronte alla violenza, alla
corruzione, allo sfruttamento e soprattutto alla mafia, l'autore
mantiene la lucidità nella diagnosi e la fermezza nella condanna. Ma
il suo pessimismo fa sì che i suoi eroi finiscano per essere
sconfitti. (1)
"A ciascuno il
suo" rispecchia tale impostazione pessimistica. Il romanzo
prende avvio con la consegna di un'anonima lettera di minacce al
dott. Manno, il farmacista di un piccolo paese siciliano. Il
farmacista e i suoi amici sono indotti, pur con qualche timore non
totalmente manifesto, a ritenere tale lettera minatoria un semplice
scherzo o forse un tentativo di impedire al farmacista e al suo
amico, il dott. Roscio, medico del paese, di prendere parte all'avvio
della stagione di caccia. Quando, pochi giorni dopo, i due vengono
ritrovati uccisi, le indagini iniziano a concentrarsi sull'ipotesi di
un delitto passionale legato a un'ipotetica infedeltà del
farmacista.
Il
prof. Laurana, amico del dott. Roscio, viene colpito da un
particolare, una parola "UNICUIQUE" che risalta ai suoi
occhi nel momento in cui si ritrova a osservare il retro della
lettera minatoria, un dettaglio che lo induce a pensare che i pezzi
di giornale per la composizione della missiva siano stati tratti dal
quotidiano "L'Osservatore romano". Tale particolare lo
spinge a iniziare una sua personale indagine, con dettagli sempre
maggiori che vengono svelati quasi per caso mediante incontri e
delazioni e che gli fanno scoprire una realtà di affari loschi,
tradimenti e inganni.
Lo stile di Sciascia può ben
considerarsi sobrio ed essenziale, privo di orpelli retorici, ma
pienamente efficace nel tratteggiare i caratteri dei vari personaggi,
nell'indagare e mostrare gli stati d'animo che accompagnano le
rispettive azioni, le reazioni di fronte a eventi imprevisti, i
conflitti interiori dinnanzi alla necessità di difendersi da
pericoli e minacce, una necessità che spesso rischia di prevalere
sull'esigenza di giustizia.
Ne
è un esempio la descrizione delle sensazioni che il farmacista Manno
prova di fronte alla minacciosa missiva appena
recapitata, nel momento in cui cerca di capire le ragioni di un
simile gesto nei suoi confronti. Un fatto del genere accadeva proprio
a lui che si considerava una persona tranquilla, che non aveva mai
avuto discussioni, nemmeno di carattere politico, ma che anzi
considerava la politica un argomento di cui non valeva la pena
parlare. È, dunque, inevitabile lo sgomento di fronte alla perfidia
altrui: «Così, con
leggerezza lo sogguardò il farmacista: ma un così leggero pensiero
subito si versò nell'amarezza di chi, ingiustamente colpito, ecco
che scopre alta sulla cattiveria altrui la propria umanità, e si
condanna e compiange perché alla cattiveria inadatto».
Sciascia ci restituisce, poi,
l'immagine tipica di un paese popolato da gente un po' pettegola con
una mentalità chiusa e bigotta, in cui si fa subito strada l'idea
che il colpevole sia stato spinto a commettere il duplice omicidio da
un movente passionale, mentre con grande facilità viene individuato
un capro espiatorio da mettere sul rogo, l'incolpevole ragazza che
spesso si recava dal farmacista con numerose ricette: «Convinto
il commissario, alla ragazza restava da convincere un paese intero,
7500 abitanti, i suoi familiari inclusi. I quali, appena rilasciata
dal commissario, ad ogni buon conto si avventarono su di lei e
silenziosamente, tenacemente, accuratamente la picchiarono».
Il professor Laurana è senza
dubbio il protagonista principale e il suo animo viene indagato a
fondo nel corso del romanzo. Insegnante di italiano e latino al liceo
classico del capoluogo, gentile, timido, ma irremovibile nel
giudizio, «un uomo onesto, meticoloso, triste; non molto
intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità, con scompensi
e risentimenti che si conosceva e condannava». Egli non
considerava il dottor. Roscio, di cui era stato un compagno di liceo,
un vero e proprio amico (di amici in realtà non ne aveva affatto),
ma una persona con cui chiacchierare ogni tanto di episodi degli anni
di scuola, oltre che un buon medico che ogni tanto visitava sua madre
quando accusava taluni disturbi.
Non è il dispiacere per la morte
di Roscio - un dispiacere che certamente provava - a indurre Laurana
ad avviare la sua personale indagine, ma una curiosità
essenzialmente intellettuale, quasi un puntiglio, alimentato dalle
confidenze e dai dettagli che man mano vengono svelati grazie a
numerosi incontri: un amico parlamentare, il padre di Roscio, famoso
oculista ormai vecchio e cieco, Benito, il bizzarro fratello di un
vecchio compagno di studi, il cui dialogo con Laurana assume la veste
di uno sproloquio apparentemente stralunato, ma fortemente lucido in
alcune parti e ricco di interessanti spunti di riflessione:
«“Non esce mai di casa?”
“Mai,
da parecchi anni … Ad un certo punto della mia vita ho fatto dei
calcoli precisi: che se io esco di casa per trovare la compagnia di
una persona intelligente, di una persona onesta, mi trovo ad
affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette
imbecilli, che stanno lì, pronti a comunicarmi le loro opinioni
sull'umanità, sul governo, sull’amministrazione municipale, su
Moravia… Le pare che valga la pena?”
“No, effettivamente no”».
Pur arrivando, senza alcun
indugio, a capire chi sia il colpevole, Laurana è come bloccato in
quella incertezza pessimistica cui accennavo sopra, che lo induce, da
un lato, a una certa diffidenza verso gli strumenti della legge e
della giustizia, da cui si sente profondamente lontano ("quanto
Marte sia lontano dalla Terra") per un «oscuro amor
proprio che gli faceva decisamente respingere l'idea che per suo
mezzo toccasse giusta punizione ai colpevoli», e, dall'altro
lato, verso una forma di disagio per un'involontaria complicità con
i colpevoli, che si unisce al turbamento per l'attrazione verso la
vedova Roscia, un'attrazione che mette in luce tutta la vulnerabilità
di Laurana e rischia di divenire pericolosa: «E qui si faceva
ambigua anche la sensualità, il desiderio: la gelosia, immotivata,
gratuita, carica di tutte le insoddisfazioni, timidezze e repressioni
della sua vita, da una parte; un acre piacere, quasi l’appagamento
del desiderio in una sorta di visuale prossenetismo, dall’altra. Ma
tutto ciò molto confusamente, in un baluginare allucinato,
febbrile».
"A ciascuno il suo"
è un intenso romanzo di denuncia contro la violenza e la
prevaricazione, una denuncia che, tuttavia, sembra ormai aver
acquisito la consapevolezza che al male non si può rimediare, ma se
ne può soltanto prendere atto, in una situazione di immobilità
dettata dalla paura e dal senso di sfiducia verso la giustizia.
(1).
V. Faggi " Il nipote di Diderot" in "Il Secolo XIX"
21 novembre 1989
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