mercoledì 24 ottobre 2018

Premio Campiello 2018 – "Le assaggiatrici" di Rosella Postorino

«Entrammo una alla volta. Dopo ore di attesa, in piedi nel corridoio, avevamo bisogno di sederci. La stanza era grande, le pareti bianche. Al centro un lungo tavolo di legno su cui avevano già apparecchiato per noi. Ci fecero cenno di prendere posto».
"Le assaggiatrici" (Feltrinelli), il romanzo di Rosella Postorino vincitore del Premio Campiello 2018, trae ispirazione dalla vera storia di Margot Wölk, l'ultima assaggiatrice di Hitler, ed è incentrato, appunto, sulle vicende di dieci donne cui viene affidato il compito di assaggiare i piatti destinati a costituire i tre pasti giornalieri del feroce dittatore tedesco al fine di verificare che il cibo adoperato non sia stato avvelenato o contaminato.
Le assaggiatrici, una volta ricevuta la visita di alcuni soldati delle SS che hanno annunciato loro il delicato e pericoloso compito che dovranno svolgere nei mesi successivi al servizio del Führer, vengono quotidianamente prelevate dalle loro case e condotte in un ex edificio scolastico adibito a caserma dove è stata predisposta una mensa, ovvero il posto in cui dovranno procedere all'assaggio giornaliero dei tre pasti. 



E quella mensa, luogo di costrizione e convivenza forzata, diviene un punto di convergenza di angosce e paure, di rivalità e contrasti, soprattutto tra le fedelissime di Hitler, soprannominate le "invasate", e le altre donne, avverse, invece, ai sentimenti filonazisti. Un luogo in cui il muro di diffidenza tra alcune donne, che contro la propria volontà si ritrovano a servire il Führer, vien pian piano sgretolato lasciando il posto a un sentimento reciproco di solidarietà e di sostegno, specialmente nell'affrontare il terrore della morte, che può verificarsi a ogni boccone ingoiato, che si tratti di un innocuo piatto di fagiolini o di una gustosa torta al miele.
La voce narrante è quella di Rosa Sauer, giovane segretaria berlinese che dalla sua città, a causa dei bombardamenti che hanno gravemente danneggiato la casa in cui abitava, deve trasferirsi dai suoceri a Gross-Partsch, la cittadina in cui aveva sede il quartier generale di Adolf Hitler sul fronte orientale, il Wolfsschanze. Con il pensiero costantemente rivolto a suo marito Gregor, inviato in Russia a causa della guerra in corso (era il 1943), Rosa, una volta giunta a Gross-Partsch, viene subito assoldata tra le assaggiatrici e vede così aggravare il suo drammatico calvario interiore.


Il romanzo si presenta con una scrittura quasi a scatti, veloce, intensa, costituita da frasi brevi e incisive, con i pensieri che si accavallano nel flusso di coscienza di Rosa, tra i ricordi di infanzia e le sensazioni del suo primo anno di matrimonio con Gregor, tra incubi e immagini che si ripropongono in modo ossessivo nella sua mente.
E mentre tali immagini scorrono, possiamo percepire l'anima di Rosa in balia di continui contrasti e contraddizioni. Lei ama profondamente Gregor e cade nella disperazione più nera nel momento in cui le viene annunciato che suo marito risulta disperso in Russia. Cerca di farsi forza, di confortare i suoceri, di credere che un giorno lo rivedranno comparire sulla porta magro e affamato, ma nel ripensare a lui a volte viene assalita da rimpianti e rancori, perché ha preferito partire per la guerra e non stare con sua moglie, per essere un buon tedesco piuttosto che un buon marito, o perché non ha voluto darle un bambino, per la sua assurda idea che mettere al mondo un figlio significa condannarlo a morte.
Eppure "i tedeschi amano i bambini", Rosa non fa che ripeterlo continuamente nel corso del romanzo. È soprattutto Hitler ad amare i bambini, per lui le donne hanno un valore solo nel momento in cui fanno tanti figli, arrivando persino a premiarle per questo, affinché gli garantiscano un popolo vasto che rinsaldi il suo potere. E i bambini diventano un'ossessione anche per Rosa, un desiderio che chissà se mai realizzerà, che magari potrà solo sfiorare, osservando quei figli delle sue compagne assaggiatrici, i loro occhi azzurri, i capelli, persino le scapole alate, immaginando un bimbo che abbia quelle caratteristiche e che possa correre felice.
Tra le tante immagini che ossessivamente ritornano nella mente di Rosa c'è anche quel gesto d'amore con Gregor, quelle dita reciprocamente spinte in bocca sapendo che la bocca non avrebbe morso: «Avrei potuto serrare la mandibola, morderlo. Gregor non ci aveva nemmeno pensato. Si è sempre fidato di me». Un gesto di affetto, di intimità e soprattutto di fiducia.
La fiducia è, infatti, un tema ricorrente nel romanzo, un elemento cardine di rapporti che si costruiscono con fatica e che rischiano continuamente di essere incrinati dal tradimento. Mi viene in mente il conflittuale rapporto con la compagna Elfride, quel primo scontro in bagno, quel "ti voglio bene" pronunciato a mezza voce dopo aver capito di potersi fidare reciprocamente. Oppure l'immagine di Gregor che, prima di essere dato per disperso, cercava, per quanto possibile, di scrivere lettere dalla Russia e in una delle ultime missive aveva accennato a un vecchio detto russo secondo cui un soldato non può essere ucciso in guerra almeno finché sua moglie gli è fedele. E Gregor non può che fidarsi di Rosa.
Quella immagine assume quasi le sembianze di una profezia nel momento in cui Gregor viene dato per disperso e Rosa, trascorsi alcuni mesi dalla notizia, inizia una relazione con un tenente delle SS. Si concretizza quel tradimento della fiducia che Gregor aveva escluso e che Rosa inizia a vivere con un profondo tormento, ripercorrendo quelle sensazioni che provava da piccola, quando si chiudeva nella sua stanza ed enumerava le sue colpe e i suoi segreti.
È una relazione tormentata che Rosa non riesce a capire bene come vivere, combattuta tra i sensi di colpa e la sensazione di intimità e tenerezza che lui riesce a trasmetterle, tra la consapevolezza di non potersi fidare fino in fondo di lui, nello stesso modo in cui, invece, poteva fidarsi di Gregor e quel desiderio di libertà che lei stessa va inseguendo nel momento in cui lui compare davanti alla sua finestra e tutto il resto sembra scomparire: «C'era, in quel gesto di uscire che chiunque ignorava, una ribellione. Nella solitudine del mio segreto sentivo una libertà integrale: sottratta a ogni controllo sulla mia stessa vita, mi abbandonavo all'arbitrarietà degli eventi».


Rosa avverte in modo pressante tale esigenza di ribellione dal momento che la libertà, altro tema fondamentale del romanzo, appare una meta quasi impossibile da realizzare, soprattutto in un regime dittatoriale che condiziona ogni gesto, ogni parola. I rapporti che Rosa si trova ad avere con le persone che la circondano sono, infatti, spesso frutto di una situazione di costrizione, fino al punto di provare quasi continuamente la sensazione che le proprie azioni siano indotte dagli altri: deve mangiare per il Führer, rischiare la vita per lui, essere sottoposta ad analisi e verifiche, rimanere rinchiusa in una stanza con le compagne in caso di sospetto avvelenamento. Ma non c'è solo questo a condizionare la sua libertà, anche fuori dalla caserma l'angosciante sensazione di costrizione sembra prolungarsi: «Perché, da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e non mi ribellavo, e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva portato via? La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana».
Eppure la separazione, pure per quei rapporti nati dalla costrizione, appare comunque dolorosa, un elemento di tragicità da cui la narrazione non può prescindere. Vi è per Rosa la drammatica perdita dei genitori, queste figure che tornano di continuo nella sua mente: suo padre che non ha mai voluto sottomettersi al nazismo, che al risuonare delle sirene che annunciano i bombardamenti preferisce rimanere a letto sprimacciando il cuscino e poi torna in sogno a rimproverarle di lavorare per i nazisti; sua madre di cui ricorda l'odore, molto simile al suo e che nel sogno rivede vestita come nel giorno in cui è morta, con un cappotto sopra la camicia da notte nella fretta di rifugiarsi in cantina per scappare dalle bombe che cadono inesorabilmente. E poi ci sono tutti gli altri che lei ha conosciuto e che via via scompaiono senza che lei possa ribellarsi.
"Le assaggiatrici" è, infine, il romanzo della sopravvivenza, di chi vede la fine di un regime che ha odiato, ma che è stato costretto a servire, di chi è stanco di vivere e di trascinarsi, di vedere le persone care andare via, al punto da rifiutare di prendere un pezzo di carta per scrivere un messaggio perché non può più tollerare di scrivere per non avere risposta, ma che nonostante tutto riesce a trovare la forza di sopravvivere e di chiudere un cerchio. È un romanzo che colpisce nel profondo, che lascia sconcertati e rabbiosi, perfino impotenti, di fronte a ciò che l'uomo è in grado di fare nei confronti dei propri simili: «Ma mentre giacevo fra quei vestiti, l'enormità della tragedia si rivelò per intero. Era un evento talmente grande, intollerabile, che stordì il dolore, si espanse tanto da occupare ogni centimetro dell'universo, divenne l'evidenza di ciò che l'umanità era capace di fare».