mercoledì 24 ottobre 2018

Premio Campiello 2018 – "Le assaggiatrici" di Rosella Postorino

«Entrammo una alla volta. Dopo ore di attesa, in piedi nel corridoio, avevamo bisogno di sederci. La stanza era grande, le pareti bianche. Al centro un lungo tavolo di legno su cui avevano già apparecchiato per noi. Ci fecero cenno di prendere posto».
"Le assaggiatrici" (Feltrinelli), il romanzo di Rosella Postorino vincitore del Premio Campiello 2018, trae ispirazione dalla vera storia di Margot Wölk, l'ultima assaggiatrice di Hitler, ed è incentrato, appunto, sulle vicende di dieci donne cui viene affidato il compito di assaggiare i piatti destinati a costituire i tre pasti giornalieri del feroce dittatore tedesco al fine di verificare che il cibo adoperato non sia stato avvelenato o contaminato.
Le assaggiatrici, una volta ricevuta la visita di alcuni soldati delle SS che hanno annunciato loro il delicato e pericoloso compito che dovranno svolgere nei mesi successivi al servizio del Führer, vengono quotidianamente prelevate dalle loro case e condotte in un ex edificio scolastico adibito a caserma dove è stata predisposta una mensa, ovvero il posto in cui dovranno procedere all'assaggio giornaliero dei tre pasti. 



E quella mensa, luogo di costrizione e convivenza forzata, diviene un punto di convergenza di angosce e paure, di rivalità e contrasti, soprattutto tra le fedelissime di Hitler, soprannominate le "invasate", e le altre donne, avverse, invece, ai sentimenti filonazisti. Un luogo in cui il muro di diffidenza tra alcune donne, che contro la propria volontà si ritrovano a servire il Führer, vien pian piano sgretolato lasciando il posto a un sentimento reciproco di solidarietà e di sostegno, specialmente nell'affrontare il terrore della morte, che può verificarsi a ogni boccone ingoiato, che si tratti di un innocuo piatto di fagiolini o di una gustosa torta al miele.
La voce narrante è quella di Rosa Sauer, giovane segretaria berlinese che dalla sua città, a causa dei bombardamenti che hanno gravemente danneggiato la casa in cui abitava, deve trasferirsi dai suoceri a Gross-Partsch, la cittadina in cui aveva sede il quartier generale di Adolf Hitler sul fronte orientale, il Wolfsschanze. Con il pensiero costantemente rivolto a suo marito Gregor, inviato in Russia a causa della guerra in corso (era il 1943), Rosa, una volta giunta a Gross-Partsch, viene subito assoldata tra le assaggiatrici e vede così aggravare il suo drammatico calvario interiore.


Il romanzo si presenta con una scrittura quasi a scatti, veloce, intensa, costituita da frasi brevi e incisive, con i pensieri che si accavallano nel flusso di coscienza di Rosa, tra i ricordi di infanzia e le sensazioni del suo primo anno di matrimonio con Gregor, tra incubi e immagini che si ripropongono in modo ossessivo nella sua mente.
E mentre tali immagini scorrono, possiamo percepire l'anima di Rosa in balia di continui contrasti e contraddizioni. Lei ama profondamente Gregor e cade nella disperazione più nera nel momento in cui le viene annunciato che suo marito risulta disperso in Russia. Cerca di farsi forza, di confortare i suoceri, di credere che un giorno lo rivedranno comparire sulla porta magro e affamato, ma nel ripensare a lui a volte viene assalita da rimpianti e rancori, perché ha preferito partire per la guerra e non stare con sua moglie, per essere un buon tedesco piuttosto che un buon marito, o perché non ha voluto darle un bambino, per la sua assurda idea che mettere al mondo un figlio significa condannarlo a morte.
Eppure "i tedeschi amano i bambini", Rosa non fa che ripeterlo continuamente nel corso del romanzo. È soprattutto Hitler ad amare i bambini, per lui le donne hanno un valore solo nel momento in cui fanno tanti figli, arrivando persino a premiarle per questo, affinché gli garantiscano un popolo vasto che rinsaldi il suo potere. E i bambini diventano un'ossessione anche per Rosa, un desiderio che chissà se mai realizzerà, che magari potrà solo sfiorare, osservando quei figli delle sue compagne assaggiatrici, i loro occhi azzurri, i capelli, persino le scapole alate, immaginando un bimbo che abbia quelle caratteristiche e che possa correre felice.
Tra le tante immagini che ossessivamente ritornano nella mente di Rosa c'è anche quel gesto d'amore con Gregor, quelle dita reciprocamente spinte in bocca sapendo che la bocca non avrebbe morso: «Avrei potuto serrare la mandibola, morderlo. Gregor non ci aveva nemmeno pensato. Si è sempre fidato di me». Un gesto di affetto, di intimità e soprattutto di fiducia.
La fiducia è, infatti, un tema ricorrente nel romanzo, un elemento cardine di rapporti che si costruiscono con fatica e che rischiano continuamente di essere incrinati dal tradimento. Mi viene in mente il conflittuale rapporto con la compagna Elfride, quel primo scontro in bagno, quel "ti voglio bene" pronunciato a mezza voce dopo aver capito di potersi fidare reciprocamente. Oppure l'immagine di Gregor che, prima di essere dato per disperso, cercava, per quanto possibile, di scrivere lettere dalla Russia e in una delle ultime missive aveva accennato a un vecchio detto russo secondo cui un soldato non può essere ucciso in guerra almeno finché sua moglie gli è fedele. E Gregor non può che fidarsi di Rosa.
Quella immagine assume quasi le sembianze di una profezia nel momento in cui Gregor viene dato per disperso e Rosa, trascorsi alcuni mesi dalla notizia, inizia una relazione con un tenente delle SS. Si concretizza quel tradimento della fiducia che Gregor aveva escluso e che Rosa inizia a vivere con un profondo tormento, ripercorrendo quelle sensazioni che provava da piccola, quando si chiudeva nella sua stanza ed enumerava le sue colpe e i suoi segreti.
È una relazione tormentata che Rosa non riesce a capire bene come vivere, combattuta tra i sensi di colpa e la sensazione di intimità e tenerezza che lui riesce a trasmetterle, tra la consapevolezza di non potersi fidare fino in fondo di lui, nello stesso modo in cui, invece, poteva fidarsi di Gregor e quel desiderio di libertà che lei stessa va inseguendo nel momento in cui lui compare davanti alla sua finestra e tutto il resto sembra scomparire: «C'era, in quel gesto di uscire che chiunque ignorava, una ribellione. Nella solitudine del mio segreto sentivo una libertà integrale: sottratta a ogni controllo sulla mia stessa vita, mi abbandonavo all'arbitrarietà degli eventi».


Rosa avverte in modo pressante tale esigenza di ribellione dal momento che la libertà, altro tema fondamentale del romanzo, appare una meta quasi impossibile da realizzare, soprattutto in un regime dittatoriale che condiziona ogni gesto, ogni parola. I rapporti che Rosa si trova ad avere con le persone che la circondano sono, infatti, spesso frutto di una situazione di costrizione, fino al punto di provare quasi continuamente la sensazione che le proprie azioni siano indotte dagli altri: deve mangiare per il Führer, rischiare la vita per lui, essere sottoposta ad analisi e verifiche, rimanere rinchiusa in una stanza con le compagne in caso di sospetto avvelenamento. Ma non c'è solo questo a condizionare la sua libertà, anche fuori dalla caserma l'angosciante sensazione di costrizione sembra prolungarsi: «Perché, da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e non mi ribellavo, e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva portato via? La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana».
Eppure la separazione, pure per quei rapporti nati dalla costrizione, appare comunque dolorosa, un elemento di tragicità da cui la narrazione non può prescindere. Vi è per Rosa la drammatica perdita dei genitori, queste figure che tornano di continuo nella sua mente: suo padre che non ha mai voluto sottomettersi al nazismo, che al risuonare delle sirene che annunciano i bombardamenti preferisce rimanere a letto sprimacciando il cuscino e poi torna in sogno a rimproverarle di lavorare per i nazisti; sua madre di cui ricorda l'odore, molto simile al suo e che nel sogno rivede vestita come nel giorno in cui è morta, con un cappotto sopra la camicia da notte nella fretta di rifugiarsi in cantina per scappare dalle bombe che cadono inesorabilmente. E poi ci sono tutti gli altri che lei ha conosciuto e che via via scompaiono senza che lei possa ribellarsi.
"Le assaggiatrici" è, infine, il romanzo della sopravvivenza, di chi vede la fine di un regime che ha odiato, ma che è stato costretto a servire, di chi è stanco di vivere e di trascinarsi, di vedere le persone care andare via, al punto da rifiutare di prendere un pezzo di carta per scrivere un messaggio perché non può più tollerare di scrivere per non avere risposta, ma che nonostante tutto riesce a trovare la forza di sopravvivere e di chiudere un cerchio. È un romanzo che colpisce nel profondo, che lascia sconcertati e rabbiosi, perfino impotenti, di fronte a ciò che l'uomo è in grado di fare nei confronti dei propri simili: «Ma mentre giacevo fra quei vestiti, l'enormità della tragedia si rivelò per intero. Era un evento talmente grande, intollerabile, che stordì il dolore, si espanse tanto da occupare ogni centimetro dell'universo, divenne l'evidenza di ciò che l'umanità era capace di fare».

domenica 16 settembre 2018

Premio Strega 2018 – "Come un giovane uomo" di Carlo Carabba

«Da sempre aspettavo che la neve tornasse a cadere su Roma». La delusione di fronte al compimento di un desiderio la cui realizzazione è stata lungamente attesa appare come uno dei fili conduttori di "Come un giovane uomo" (Marsilio), il romanzo di Carlo Carabba incluso tra i 12 candidati al Premio Strega 2018. Un romanzo strutturato come un monologo interiore con una profonda analisi introspettiva che, partendo dal ricordo di episodi dell'infanzia e dell'adolescenza fino a giungere al racconto di accadimenti più recenti, dà vita a una sequenza di riflessioni e ragionamenti sul complesso passaggio dalla giovinezza all'età adulta, sui legami interpersonali e sul rapporto con la morte e il lutto, un rapporto che inevitabilmente spaventa e inquieta.
Tale sequenza di riflessioni rende la struttura narrativa complessa e non sempre di agevole lettura,  avvalendosi di continui incisi e rinvii ad altri argomenti, anche grazie ai frequenti viaggi a ritroso con la memoria. Si tratta, comunque, di una narrazione ricca di interessanti spunti letterari e forte di uno stile preciso ed elegante.


Il racconto degli eventi prende avvio con il ricordo, denso di nostalgia, di una nevicata avvenuta a Roma nei primi anni Ottanta, di cui il protagonista conserva una memoria visiva i cui contorni sono resi incerti dal tempo ormai trascorso e dall'immaginazione che spesso finisce per modificare i tratti essenziali che gli accadimenti passati assumono nella mente, come ad esempio il viso della persona con cui il protagonista ebbe modo di recarsi al parco per osservare la natura imbiancata e calpestare la neve, un viso reso sfuocato e privo di lineamenti come i personaggi di un fumetto Disney con Topolino ed Eta Beta.
Quel ricordo per il protagonista è inevitabilmente associato ad altre reminiscenze della sua infanzia, soprattutto al rapporto con i compagni di scuola nei cui confronti ha sempre provato una inevitabile forma di disagio, forse perché vittima di una certa paura di adattarsi alla vita, oltre che del timore di crescere e di non essere in grado di affrontare il futuro. Ma il ricordo è soprattutto un sogno lungamente vagheggiato di rivedere la neve cadere su Roma: «Nel corso degli anni, ormai cresciuto, avrei tentato più volte, passeggiando o correndo, di risalire a quel tempo smarrito, sperando che il contatto con lo stesso suolo che avevo visto coperto di bianco [...]sapesse ritrovare la vibrazione originaria che aveva prodotto l'eco dei ricordi che da tanti anni risuonava nella mia mente, restituendomi il centro perduto della reminiscenza e dell'oblio di cui ignoravo tanto e da cui tanto di quello che ero e sono dipende: la mia infanzia».
Il sogno si realizza circa venticinque anni dopo, ma il desiderio, ormai compiuto, lascia il posto a una profonda insoddisfazione cui il protagonista tenta man mano, forse inutilmente, di dare una spiegazione razionale. Ma certamente il suo intento a lungo coltivato di ritrovare l'incanto dell'infanzia, al fine di ricongiungere in qualche modo il passato con il presente tramite una epifania capace di svelare profonde verità sull'esistenza, risulta purtroppo vano.


Nel romanzo sembrano assumere un ruolo essenziale le coincidenze di eventi apparentemente distanti tra loro, coincidenze spesso vissute con un senso di colpa e il vano tentativo di attribuire loro un particolare significato. La principale coincidenza è, senza dubbio, tra la nevicata di circa venticinque anni dopo e un evento tragico, un incidente che coinvolge Mascia, una cara amica del protagonista, che entra in coma e muore dopo pochi giorni. E in tal caso il senso di colpa, col senno di poi, è legato al fatto di aver vissuto le ore precedenti la scoperta di tale drammatica notizia in preda a sciocchi dubbi e falsi buoni auspici legati alla neve, cui verrà attribuito, poi, quasi un ruolo nefasto e di malaugurio.
Quel tragico accadimento si porta dietro notevoli conseguenze per il protagonista che fin da subito sembra quasi aver messo tra parentesi la notizia ricevuta, creando una parete protettiva che, se da un lato sembra almeno temporaneamente proteggerlo dal dolore, dall'altro lo trascina in un vortice di sensi di colpa che si acuiscono progressivamente inducendolo a credere di avere un cuore arido e insensibile.
L'unico modo per cercare di uscire da quel ginepraio di sensazioni - in cui si inserisce anche un importante richiamo a un libro di Adelbert Von Chamisso, "Storia straordinaria di Peter Schlemihl", il cui protagonista si ritrova a dover scegliere tra la propria ombra o la propria anima - è quello di elaborare il lutto richiamando alla mente episodi precedenti in cui l'io narrante ha dovuto affrontare il dolore di una perdita, come quello della nonna materna, e cercando di ricostruire il rapporto con Mascia fin dal loro incontro e dal tentativo di definire un nuovo approccio alla vita: «Quella sera, tra le nostre due identità appena nate (...) avvenne un riconoscimento, fondato però non sulla certezza che in noi era avvenuto un cambiamento, una trasformazione in persone sicure di sé, indurite dalle avversità della vita, rese ciniche dai rovesci del cuore, ma sulla necessità reciproca di credere che questo cambiamento ci fosse stato davvero, offrendoci soccorso e protezione dallo scetticismo di chi ci conosceva da tempo e che, sentivamo, avrebbe ritenuto impossibile che mutassimo realmente».
"Come un giovane uomo" è, dunque, una coraggiosa e sincera confessione che denota una notevole capacità di scavare a fondo nella mente e di districarsi all'interno di un labirinto di sensazioni e pensieri contrastanti che spesso rimbalzano da un lato all'altro del proprio cervello, affrontando l'inevitabile smarrimento e cercando una possibile via d'uscita.


domenica 9 settembre 2018

Novecento italiano – Leonardo Sciascia e "A ciascuno il suo"

«Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell'umanità si abbevera. Nella realtà le cose stanno però diversamente: e i coefficienti di impunità e dell’errore sono alti non perché (o non soltanto, o non sempre) è basso l'intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre sono di solito assolutamente insufficienti. Un delitto, diciamo, commesso o organizzato da gente che ha tutta la buona volontà di contribuire a tenere alto il coefficiente di impunità.
Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti».
Leonardo Sciascia, nato a Racalmuto nel 1921 e morto a Palermo nel 1989, è una delle grandi figure del Novecento italiano ed europeo e con le sue opere ha dato vita a una mirabile, affascinante e originale contaminazione tra romanzo giallo e romanzo di denuncia civile.


Mediante un'assidua frequentazione giovanile della biblioteca del suo paese e la lettura di numerosi classici tra cui Diderot e Manzoni, Sciascia giunse a una solida formazione letteraria che i critici definirono di stampo illuminista e moralista. Egli era considerato, infatti, un illuminista in quanto credeva fortemente nella ragione e nella libertà, e un moralista per la sua tendenza a frugare nelle pieghe dell'anima nel tentativo di capire le motivazioni dell'agire umano e le sue sensazioni.
L'illuminismo di Sciascia si distacca, tuttavia, dai suoi maestri francesi per la sua venatura pessimistica, pur rimanendo ferma la fiducia nell'attitudine dell'uomo a comprendere e giudicare: se Diderot confida nella possibilità che la società e il singolo progrediscano, Sciascia nutre il dubbio che tutto sia bloccato e immodificabile, pur lottando per il progresso e la verità. Di fronte alla violenza, alla corruzione, allo sfruttamento e soprattutto alla mafia, l'autore mantiene la lucidità nella diagnosi e la fermezza nella condanna. Ma il suo pessimismo fa sì che i suoi eroi finiscano per essere sconfitti. (1)
"A ciascuno il suo" rispecchia tale impostazione pessimistica. Il romanzo prende avvio con la consegna di un'anonima lettera di minacce al dott. Manno, il farmacista di un piccolo paese siciliano. Il farmacista e i suoi amici sono indotti, pur con qualche timore non totalmente manifesto, a ritenere tale lettera minatoria un semplice scherzo o forse un tentativo di impedire al farmacista e al suo amico, il dott. Roscio, medico del paese, di prendere parte all'avvio della stagione di caccia. Quando, pochi giorni dopo, i due vengono ritrovati uccisi, le indagini iniziano a concentrarsi sull'ipotesi di un delitto passionale legato a un'ipotetica infedeltà del farmacista.


Il prof. Laurana, amico del dott. Roscio, viene colpito da un particolare, una parola "UNICUIQUE" che risalta ai suoi occhi nel momento in cui si ritrova a osservare il retro della lettera minatoria, un dettaglio che lo induce a pensare che i pezzi di giornale per la composizione della missiva siano stati tratti dal quotidiano "L'Osservatore romano". Tale particolare lo spinge a iniziare una sua personale indagine, con dettagli sempre maggiori che vengono svelati quasi per caso mediante incontri e delazioni e che gli fanno scoprire una realtà di affari loschi, tradimenti e inganni.
Lo stile di Sciascia può ben considerarsi sobrio ed essenziale, privo di orpelli retorici, ma pienamente efficace nel tratteggiare i caratteri dei vari personaggi, nell'indagare e mostrare gli stati d'animo che accompagnano le rispettive azioni, le reazioni di fronte a eventi imprevisti, i conflitti interiori dinnanzi alla necessità di difendersi da pericoli e minacce, una necessità che spesso rischia di prevalere sull'esigenza di giustizia.
Ne è un esempio la descrizione delle sensazioni che il farmacista Manno prova di fronte alla minacciosa missiva appena recapitata, nel momento in cui cerca di capire le ragioni di un simile gesto nei suoi confronti. Un fatto del genere accadeva proprio a lui che si considerava una persona tranquilla, che non aveva mai avuto discussioni, nemmeno di carattere politico, ma che anzi considerava la politica un argomento di cui non valeva la pena parlare. È, dunque, inevitabile lo sgomento di fronte alla perfidia altrui: «Così, con leggerezza lo sogguardò il farmacista: ma un così leggero pensiero subito si versò nell'amarezza di chi, ingiustamente colpito, ecco che scopre alta sulla cattiveria altrui la propria umanità, e si condanna e compiange perché alla cattiveria inadatto».
Sciascia ci restituisce, poi, l'immagine tipica di un paese popolato da gente un po' pettegola con una mentalità chiusa e bigotta, in cui si fa subito strada l'idea che il colpevole sia stato spinto a commettere il duplice omicidio da un movente passionale, mentre con grande facilità viene individuato un capro espiatorio da mettere sul rogo, l'incolpevole ragazza che spesso si recava dal farmacista con numerose ricette: «Convinto il commissario, alla ragazza restava da convincere un paese intero, 7500 abitanti, i suoi familiari inclusi. I quali, appena rilasciata dal commissario, ad ogni buon conto si avventarono su di lei e silenziosamente, tenacemente, accuratamente la picchiarono».


Il professor Laurana è senza dubbio il protagonista principale e il suo animo viene indagato a fondo nel corso del romanzo. Insegnante di italiano e latino al liceo classico del capoluogo, gentile, timido, ma irremovibile nel giudizio, «un uomo onesto, meticoloso, triste; non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità, con scompensi e risentimenti che si conosceva e condannava». Egli non considerava il dottor. Roscio, di cui era stato un compagno di liceo, un vero e proprio amico (di amici in realtà non ne aveva affatto), ma una persona con cui chiacchierare ogni tanto di episodi degli anni di scuola, oltre che un buon medico che ogni tanto visitava sua madre quando accusava taluni disturbi.
Non è il dispiacere per la morte di Roscio - un dispiacere che certamente provava - a indurre Laurana ad avviare la sua personale indagine, ma una curiosità essenzialmente intellettuale, quasi un puntiglio, alimentato dalle confidenze e dai dettagli che man mano vengono svelati grazie a numerosi incontri: un amico parlamentare, il padre di Roscio, famoso oculista ormai vecchio e cieco, Benito, il bizzarro fratello di un vecchio compagno di studi, il cui dialogo con Laurana assume la veste di uno sproloquio apparentemente stralunato, ma fortemente lucido in alcune parti e ricco di interessanti spunti di riflessione:
«“Non esce mai di casa?”
Mai, da parecchi anni … Ad un certo punto della mia vita ho fatto dei calcoli precisi: che se io esco di casa per trovare la compagnia di una persona intelligente, di una persona onesta, mi trovo ad affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette imbecilli, che stanno lì, pronti a comunicarmi le loro opinioni sull'umanità, sul governo, sull’amministrazione municipale, su Moravia… Le pare che valga la pena?”
No, effettivamente no”».
Pur arrivando, senza alcun indugio, a capire chi sia il colpevole, Laurana è come bloccato in quella incertezza pessimistica cui accennavo sopra, che lo induce, da un lato, a una certa diffidenza verso gli strumenti della legge e della giustizia, da cui si sente profondamente lontano ("quanto Marte sia lontano dalla Terra") per un «oscuro amor proprio che gli faceva decisamente respingere l'idea che per suo mezzo toccasse giusta punizione ai colpevoli», e, dall'altro lato, verso una forma di disagio per un'involontaria complicità con i colpevoli, che si unisce al turbamento per l'attrazione verso la vedova Roscia, un'attrazione che mette in luce tutta la vulnerabilità di Laurana e rischia di divenire pericolosa: «E qui si faceva ambigua anche la sensualità, il desiderio: la gelosia, immotivata, gratuita, carica di tutte le insoddisfazioni, timidezze e repressioni della sua vita, da una parte; un acre piacere, quasi l’appagamento del desiderio in una sorta di visuale prossenetismo, dall’altra. Ma tutto ciò molto confusamente, in un baluginare allucinato, febbrile».
"A ciascuno il suo" è un intenso romanzo di denuncia contro la violenza e la prevaricazione, una denuncia che, tuttavia, sembra ormai aver acquisito la consapevolezza che al male non si può rimediare, ma se ne può soltanto prendere atto, in una situazione di immobilità dettata dalla paura e dal senso di sfiducia verso la giustizia.



(1). V. Faggi " Il nipote di Diderot" in "Il Secolo XIX" 21 novembre 1989

sabato 1 settembre 2018

Novità letterarie – "Ripaferdine (storie di cortile)" di Paolo Vitaliano Pizzato

«Avevo trattato la zona con indifferenza, come un vecchio amico che si è smesso di frequentare, un ex compagno di scuola sbiadito insieme agli insegnanti amati e odiati, alle aule e ai loro odori, abbandonato nell'eterno sovrapporsi dei giorni. Avevo avuto le mie buone ragioni per comportarmi così, lo sapevo bene, ma in quel momento era come se le motivazioni di un tempo avessero perduto la loro importanza. Adesso c'era soltanto la zona, e il terrore di perderla per sempre».
"Ripaferdine (storie di cortile)" (Giraldi Editore) è un romanzo molto particolare di Paolo Vitaliano Pizzato, composto da una sequenza di quadri, di storie, di stralci di vita che alternano momenti di ironia, tenerezza e coraggio, ma anche di paura e scoramento. Sono storie legate tra loro dal filo della memoria, dalla nostalgia di un uomo che intende narrare tali vicende per cercare in qualche modo di trattenere e rievocare il passato, sforzandosi di impedire che i pezzi che lo compongono vadano inesorabilmente perduti a causa dell'inarrestabile avanzare del progresso.


L'uomo che cerca di realizzare tale salvifica narrazione è un ingegnere che ha trascorso la sua infanzia e adolescenza in un quartiere periferico di Milano, "un quadrilatero, una serie di vie che tagliano schiere di palazzi e piccoli negozi", confidenzialmente ribattezzato "la zona" dai suoi abitanti, e che ora vi ritorna per svolgere il suo lavoro, ovvero vigilare sull'esecuzione di un piano di ristrutturazione che, in vista dell'Expo 2015, avrebbe dovuto coinvolgere l'intera zona trasformandola radicalmente.
La paura dell'ingegnere è che la zona con questo profondo stravolgimento possa perdere i suoi connotati essenziali, quelle caratteristiche che in un certo senso l'avevano resa un luogo unico e a cui i suoi ricordi di bambino sono legati in modo indissolubile. Per questo motivo vuole affidare tali ricordi alla scrittura, da cui emerge un'assai variopinta galleria di personaggi, ognuno con il proprio mondo interiore da cogliere e svelare nella sua essenza.
L'io narrante - inizialmente rappresentato dall'ingegnere che nelle pagine successive ritorna a essere semplicemente Paolo, quel bambino che giocava in cortile con i suoi amici - si trasforma acquisendo un punto di vista collettivo, ovvero quel gruppo di ragazzini che della zona costituisce l'anima, lo spirito vitale, l'acuto occhio indagatore.
I ragazzi vivono la zona con i loro giochi, i litigi, i conflitti e le competizioni, i primi tormenti amorosi e un profondo sentimento di fratellanza che nel corso degli anni li unisce. La zona diviene il loro punto di riferimento rispetto a cui paragonare ogni altra parte della città che, di conseguenza, «diventa miraggio, qualche volta desiderio, qualche altra invece, quando decidiamo di avventurarci oltre la nostra zona, diventa scoperta». E, percorrendo la strada principale, talmente lunga e dritta che non se ne vede la fine, nella zona finiscono per arrivare i protagonisti delle diverse storie, persone che i ragazzi non possono fare a meno di osservare con attenzione imparando col tempo a capirle.


"Ripaferdine", in continuità con i precedenti romanzi di Pizzato, denota una forte esigenza di analisi introspettiva, che viene resa efficacemente attraverso la combinazione di altri elementi, tra cui la narrazione di carattere memoriale e, per certi aspetti, il romanzo di formazione, e assume una dimensione corale, collettiva, di umana partecipazione alle vicende di uomini e donne che si sentono sconfitti dalla vita, ma che in qualche modo riescono a non essere completamente infelici: «gli uni avevano gli altri, seppur in una comunione umana confusa, in una babele d'affetti che scambiava per autentico interesse una morbosità pruriginosa, in un immaturo labirinto di invidie, separazioni, alleanze che mutavano a un ritmo impressionante; vivevano una vita da villaggio, obbedienti alla regola non scritta di una mutua trasparenza, ciascuno esibendo se stesso, il ladro come il fallito, la puttana come l'ubriaco».
Ho parlato prima di "romanzo di formazione", in quanto i ragazzi, come risulta particolarmente evidente nella narrazione, crescono e maturano in quella "comunione umana confusa", imparano a capire il mondo che li circonda, traendone numerosi insegnamenti di vita, e in tal modo, si fortificano cercando di comprendere come affrontare la morte, la malattia, la solitudine, la disperazione, la follia.
L'autore conferma di possedere uno stile originale, con una scrittura precisa e ben articolata, forse ancor più matura rispetto alle precedenti opere, ricca di descrizioni accurate di luoghi e sensazioni, ben incanalate attraverso il punto di vista dei vari protagonisti. È un romanzo denso di una poeticità malinconica che trapela da ogni storia. 


Con le strampalate avventure del ladro Arnaldo, che del furto vorrebbe fare la propria professione, ma che si ritrova alle prese con un camion da rubare e una brutta sorpresa, emerge un racconto fortemente ironico e scanzonato con un personaggio fuori dal comune che non sembra volersi piegare alle avversità di un destino beffardo, ma ne affronta le conseguenze cercando di mantenere sempre il suo "contegno di ladro".
Tenera e struggente è, invece, la storia del giovane Emilio che, per il suo lieve ritardo mentale si sente rifiutato dal padre, deriso dai coetanei e anche da persone più grandi, e cerca, quindi, di sfuggire a tale triste realtà aggrappandosi all'oscurità della notte per inseguire sogni e illusioni, urlando il suo amore disperato per una ragazza.
La signora Angela, ne "La donna e i cani", è la protagonista di un racconto malinconico, ma decisamente istruttivo, che si concentra sul tema dell'abbandono dei cani, delle sofferenze e delle sevizie che spesso tali animali subiscono per opera di persone senza scrupoli. Angela con amore e dedizione si prende cura di loro prima al canile e poi con le adozioni, e si ritrova circondata dall'affetto e dalla comprensione dei ragazzini della zona che, dopo la morte di Biscotto, il primo cane adottato da Angela, si sentono responsabili e partecipi, quasi volessero prendersi una rivincita sulla morte.
"L'innamorato riflesso in un vetro" è, infine, la drammatica parabola di Desiderio, che vuol diventare ricco e farsi re come il sovrano longobardo di cui porta il nome, conosciuto studiando storia sui banchi di scuola. Ma Desiderio, in questa sua corsa, finisce per costruirsi intorno una barriera che lo porta a rifiutare la sua adolescenza, a opporsi a ogni coinvolgimento sentimentale e a ogni perdita di tempo che potrebbe distrarlo dal suo obiettivo, una barriera che, più in là con gli anni, mostrerà tutta la sua fatale fragilità.
"Ripaferdine" è, dunque, una narrazione corale di storie di persone sconfitte dalla vita, che cercano un modo per essere un po' meno infelici, ma è anche un racconto che ci parla dell'importanza della memoria. Non ci si può illudere che il mondo, specialmente quello della propria infanzia, possa rimanere per sempre inalterato e uguale a se stesso, in quanto ogni progresso è inevitabile e ogni rimpianto è inutile. Ma la memoria è un bene che nessuno può sottrarci e tentare di salvarla, trasmetterla, diffonderla, diventa una necessità ineludibile.

giovedì 30 agosto 2018

Eventi casuali e storie da raccontare: "La panne"

«Ci sono ancora storie possibili, storie per scrittori?». È questo il quesito, a tratti allarmante, che lo scrittore Friedrich Dürrenmatt pone all’inizio del suo delizioso racconto “La panne”. È una domanda che, in realtà, nasce da alcune considerazioni sui possibili temi che un autore può affrontare nel realizzare le sue opere, considerazioni che si basano su una determinata logica.
Si inizia tale ragionamento escludendo che un autore voglia parlare di sé, raccontare le proprie “speranze e sconfitte”. Si ipotizza, invece, che voglia lavorare al proprio tema ponendosi “come uno scultore di fronte alla materia da cui trarre una statua”. Tale limitazione finisce necessariamente per trasformare la scrittura in un mestiere irto di notevoli difficoltà.
Escludendo, poi, di dedicarsi a valori elevati, moralità e sentenze di facile uso, per rimanere, piuttosto, sulla superficie, lo scrittore si chiede cosa altro vi sia da raccontare e arriva, quindi, a constatare che il destino ha ormai definitivamente abbandonato la scena artistica appostandosi dietro le quinte, per cui vi sono soltanto incidenti, eventi che accadono casualmente senza alcun legame con il fato, con l’insieme dell’universo. Proprio questi accadimenti potrebbero formare oggetto della scrittura.



Ed è proprio da un evento casuale, una panne, che la storia narrata prende avvio. Il racconto, dopo tale interessante prologo, parte subito con l’incidente di lieve entità che coinvolge Alfredo Traps, un rappresentante di articoli tessili, un guasto alla sua auto che lo costringe a pernottare in paese.
L’uomo inizia, quindi, a girare per il ridente villaggio ai cui margini si trova l’officina cui ha appena affidato la sua auto per le necessarie riparazioni, non senza prima aver espresso una certa ironia nei confronti della categoria dei meccanici: «Traps fumò una sigaretta e poi fece quanto gli restava ormai da fare. Il meccanico che rimorchiò infine la Studebaker disse che non avrebbe potuto riparare il guasto, un difetto all'alimentazione, prima dell'indomani. Non c'era modo di sapere se fosse davvero così né era prudente tentare di scoprirlo: siamo alla mercé dei meccanici come i nostri antenati erano alla mercé dei predoni e, ancora prima, delle divinità locali e dei demoni»
È, dunque, il caso che lo induce a fermarsi in quel simpatico paesello, oltre al desiderio di un’avventura galante. Ed è sempre il caso a condurlo presso una villa in cui riceve ospitalità per la notte. Una villa di proprietà di un giudice in pensione, in cui, come di consueto, vengono ospitati altri tre bizzarri personaggi, un pubblico ministero, un avvocato difensore e un boia, tutti ormai giunti a quell'età in cui diviene necessario cessare la propria età lavorativa.
I quattro personaggi, come avrà modo di scoprire molto presto il rappresentante tessile, sono soliti inscenare, per trascorrere il loro tempo libero ormai dilatato, i grandi processi della storia (Socrate, Gesù, Giovanna D'Arco, Dreyfus), ciascuno nel ruolo ricoperto durante la propria attività lavorativa. E quando un ospite si unisce a loro, questi diviene il principale imputato, con un divertimento di gran lunga maggiore, considerato lo sforzo per ricostruire il delitto commesso e decidere quale pena applicare.



Il geniale racconto, nella coinvolgente sequenza narrativa, pone in evidenza la totale ingenuità di Alfred Traps che, nonostante le raccomandazioni dell'avvocato difensore e l'invito alla cautela, viene invischiato in pieno nel processo e irretito dal vortice delle domande del pubblico ministero, che ricava ogni elemento utile per la definizione della causa, con accusa di colpevolezza, dal racconto di Traps su eventi della propria vita. Eventi che mostrano come il rappresentante tessile sia un uomo dagli orizzonti assai limitati al punto da non avere piena consapevolezza e coscienza della spregiudicatezza di certe sue condotte e dei relativi effetti.
In un certo senso, i suoi quattro compagni di una serata dalle abbondanti libagioni e dalle sconvenienti confessioni, sembrano porre in atto un processo catartico, con una presa di coscienza delle conseguenze delle proprie azioni e delle relative responsabilità, consentendo la visione di un orizzonte di giustizia che sembra porsi al di là della giustizia ordinariamente gestita dagli uomini con procedure burocratiche.
"La panne" è un racconto coinvolgente e accattivante, a tratti paradossale, con una costruzione narrativa estremamente lucida e densa di ironia, che sembra quasi dimostrare un teorema: mettendo da parte il destino e le leggi universali e partendo da un incidente casuale, si arriva comunque a percorrere una sequenza di eventi che dal particolare giunge all'universale, dal circoscritto ed egoistico ambito personale perviene, seppure con una certa bizzarria, alla scoperta di un ideale di giustizia.

domenica 5 agosto 2018

Il libro del mese – "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque

«Dovevano essere per noi diciottenni tutori e guide all'età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all'avvenire. Noi li prendevamo in giro e talvolta facevamo loro dei piccoli scherzi, ma in fondo credevamo a ciò che ci dicevano. Al concetto dell'autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un'idea di maggior saggezza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro, che ci sorpassavano soltanto nelle frasi e nell'astuzia. Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e fece crollare la concezione del mondo che ci avevano insegnato».
"Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque è uno straordinario romanzo sugli orrori e sull'assurda follia della Prima Guerra Mondiale, un romanzo che indubbiamente risente dell'esperienza personale dell'autore, che nel 1916 fu spinto ad arruolarsi volontariamente e nel 1917 fu spedito sul fronte occidentale, dove rimase gravemente ferito.
Il romanzo ruota intorno alle vicende di quattro ragazzi, Paul Baumer, la voce narrante, Albert Kropp, ritenuto il più intelligente del gruppo, Muller, che in caserma e sul fronte ancora si tirava dietro i suoi libri di scuola sognando una sessione di esami di emergenza, Leer, barbuto e con una predilezione per le ragazze dei bordelli riservati agli ufficiali. Quattro diciottenni, compagni di scuola, che decidono di arruolarsi volontariamente e di recarsi a combattere al fronte, spinti dai discorsi esaltati del loro professore, Kantorek, che cerca in ogni modo di imprimere loro il senso del dovere verso la patria e la necessità di difenderla da ogni pericolo.


Kantorek era un idealista, come ve ne erano tanti all'epoca, che si considerava favorevole all'intervento in guerra pur rimanendo in patria e, ammantato di una parvenza di saggezza, aveva creato nelle menti dei giovani in procinto di arruolarsi un mondo illusorio, destinato a crollare con il primo compagno morto, colpito da una granata.
La narrazione si apre immergendoci subito negli orrori della guerra, con un apparente cinismo che vuol essere un modo per fuggire mentalmente da quella barbarie, cercando gli aspetti positivi e inseguendo una sensazione di leggerezza. I giovani soldati hanno appena ricevuto il cambio al fronte e stanno facendo ritorno nelle retrovie, dopo aver ricevuto un duro attacco da parte dei nemici e aver subito numerose perdite. Eppure mettono da parte lo spavento e il dolore e si aggrappano a tutto ciò che di positivo ci può essere, come una doppia razione di rancio, una sigaretta in più, un paio di stivali, pensando alla possibilità di starsene alcune ore tranquilli all'aria aperta a leggere, a giocare carte e a parlare.
Il dramma di questi ragazzi, come viene ribadito più volte nel romanzo, soprattutto nelle riflessioni di Paul, è il non aver fatto in tempo a mettere radici, essendo troppo giovani per creare progetti in vista dell'avvenire e per costruire propri saldi punti di riferimento: si sono presentati al fronte rivestiti di ideali romantici, ben presto distrutti e soppiantati da un senso pratico che rischia di farli apparire spietati. Illuminante in tal senso è un episodio di cui è protagonista Muller, che appare quasi ossessionato dal desiderio di difendere gli stivali del compagno in fin di vita.
Questo senso pratico deriva loro soprattutto dall'addestramento: «Divenimmo duri, diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi; e fu un bene: erano proprio quelle le qualità che ci mancavano. Se ci avessero mandato in trincea senza quella preparazione, la maggior parte di noi sarebbe impazzita. Così invece eravamo preparati a ciò che ci attendeva»



In questo contesto, diventa forte il legame che Paul e i suoi compagni stringono con altri soldati, un legame fatto di sostegno reciproco, di confidenze e di conforto pur di fronte al dolore e alla morte. Un rapporto che si concretizza anche in accese discussioni su svariati e interessanti temi, partendo dal tentativo di spiegare perché uomini modesti nella vita ordinaria diventano spietati tormentatori in caserma, per poi arrivare alla ricerca dei motivi che spingono i Paesi a dichiararsi guerra.
Il legame è molto forte soprattutto con Katczinsky, il capo della squadra, tenace e scaltro quarantenne, che riesce a cavarsela in ogni situazione, capace di trovare ovunque i mezzi per sopravvivere, soprattutto cibo in abbondanza, un vero emblema del cameratismo: «Anziché spezzarci ci adattammo, aiutati in questo dai nostri vent'anni, che pure ci rendevano tanto duri altri sacrifici. Ma importante fu che tra noi venne in tal modo sviluppandosi un forte sentimento di solidarietà, il quale poi al fronte si innalzò a quanto di meglio abbia prodotto la guerra: il cameratismo»
Nel romanzo la caratterizzazione dei personaggi è molto forte: Remarque non manca mai di presentarci i suoi protagonisti con pennellate decise, con quei tratti che li contraddistinguono e li accompagnano nelle alterne vicende belliche. Ma la forza della narrazione risiede soprattutto nella capacità di scolpire immagini indelebili, forti e crude, oppure ilari e spassose, spesso dense di una poeticità struggente, in grado di far rivivere le sensazioni di smarrimento di ragazzi al fronte che, privi di saldi punti di riferimento, non riescono a intravedere un futuro e si sentono ormai perduti.


Si alternano le descrizioni dettagliate degli scenari e delle operazioni di guerra, con una precisione tecnica accompagnata da una tensione emotiva che trapela con violenza. Paul pensa al fronte come a un orribile gorgo che attrae con forza, ma nello stesso tempo benedice la terra che lo protegge e in cui si ritrova avvolto contro il pericolo delle schegge che piovono continuamente, spinto da un atavico istinto di sopravvivenza che di seguito viene descritto con grande maestria: «Al fischio delle prime granate, al primo strappo dell'aria solcata dalle detonazioni, subito nelle nostre vene, nelle mani, negli occhi è come un'attesa sommessa, un origliare, un essere più svegli, una singolare duttilità dei sensi: all'improvviso tutta la persona si trova in piena efficienza».
"Niente di nuovo sul fronte occidentale" è, dunque, un capolavoro della letteratura mondiale, un romanzo che necessità di una lettura lenta, affinché ogni immagine, ogni pagina possa sedimentare dentro. È il racconto di una generazione perduta a causa della guerra, ragazzi strappati alla loro vita e mandati al fronte, purtroppo consapevoli che se anche venisse loro restituito il paesaggio della loro gioventù, non saprebbero goderne, ormai completamente slegati dal loro mondo iniziale: «abbandonati come bambini, disillusi come anziani, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti». E questa sensazione Paul la sperimenta durante la prima licenza trascorsa a casa.
È, in conclusione, una narrazione di vicende belliche che sa tradursi splendidamente in poesia tenera e tragica: «Un piccolo soldato e una voce benevola, e se gli faceste una carezza, forse non vi capirebbe più: ha gli scarponi ai piedi e il cuore pieno di terra; e marcia così, e ha tutto dimenticato fuorché il marciare. Non sono forse fiori quelli all'orizzonte, e un paesaggio così quieto che gli viene voglia di piangere, al soldato? Non ci sono forse là immagini che lui non ha perduto perché non le ha mai possedute? Immagini che lo turbano, ma che per lui sono passate via? Non sono forse là i suoi vent'anni?»


martedì 26 giugno 2018

Premio Strega 2018 – "Questa sera è già domani" di Lia Levi

Continuano le mie recensioni su alcuni dei dodici libri candidati al Premio Strega 2018, dopo i romanzi di Marco Balzano e Angela Nanetti.

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«Gli sembrava che tutto procedesse come se un treno, dopo aver deragliato, continuasse la sua corsa sul terreno. Infido, pericoloso, pieno di buche, ma pur sempre terra ferma e in qualche modo rassicurante. La spinta umana a rassegnarsi è davvero così forte? Quello che ieri era sembrato insostenibile, oggi si riusciva a inghiottirlo quasi senza fatica».
"Questa sera è già domani" (Edizioni E/O) di Lia Levi – finalista al Premio Strega 2018, nonché vincitore del Premio Strega Giovani - è un romanzo storico ambientato durante il periodo fascista e incentrato sulle vicende dei Rimon, una famiglia ebrea vittima delle persecuzioni antisemite e delle leggi razziali.
La storia della famiglia Rimon può ben paragonarsi alla corsa di un treno che inizia il suo viaggio placidamente, pur se tra piccoli conflitti e incomprensioni, in una città, Genova, apparentemente tranquilla, in cui il fascismo non sembrava destare particolari preoccupazioni, dal momento che «faceva parte di quasi tutte le loro vite, anche se magari in dosi variabili». E la famiglia sembra davvero procedere normalmente lungo il suo percorso fino a quando all'improvviso non incontra un ostacolo, quella Storia che si intromette nelle intime vicende personali e decide diversamente rispetto ai progetti prestabiliti creando uno sconvolgimento senza precedenti. 



«La normalità non sa di esserlo. Procede a tratti brevi, programmi abituali, iniziative di piccolo passo, non sai nemmeno se ti piacciono le cose che stai facendo». Almeno fino a quando la normalità non subisce un profondo strattone spostandosi su di un terreno più infido e scivoloso in cui la risoluzione di ogni problema sembra essere sempre più lontana.
Il romanzo di Lia Levi presenta una struttura classica, con una narrazione lineare e uno stile semplice e incisivo, che a tratti mostra una poeticità struggente, specialmente nello svelare i pensieri e le inquietudini del piccolo Alessandro, il protagonista principale, quel bimbo prodigio che appare come una luce attorno a cui si concentrano le attenzioni dell'intera famiglia, dei suoi genitori Emilia e Marc, degli zii Osvaldo e Wanda, del nonno Luigi.
Alessandro mostra sin da subito un'intelligenza e una sensibilità particolarmente spiccate, oltre che una precoce propensione alla scrittura e alla lettura, al punto che, una volta iscritto alla scuola elementare, si ritrova immediatamente a saltare da una classe all'altra, avendo già acquisito le nozioni necessarie, fino a giungere al ginnasio con due anni di anticipo.
È in quel momento che iniziano le sue prime difficoltà, quando tenta di instaurare rapporti di amicizia con ragazzi più grandi, già in età adolescenziale: il suo essere un bambino prodigio si rivela più che altro uno svantaggio che lo pone in una condizione di diversità, condizione legata anche alle sue origini ebraiche. E la descrizione della sua sensazione di solitudine è semplice, ma commovente: «Non c'era mai nessuno che avesse voglia di fargli compagnia. A loro non vado bene, non dico le frasi che bisogna dire, non so nemmeno quali sono queste frasi, se no magari fingerei. Scappo sempre prima di essere respinto, una felice trovata, così vinco io. Quella storia del troppo piccolo o troppo grande è una scusa, cerchiamo di essere almeno sinceri con noi stessi. Forse essere ebreo è questo. Tu li cerchi e fuggi, loro ti accettano e ti cacciano. Si sentiva diverso, a disagio, non su faccende di anni o di scuole ma dappertutto, in ogni angolo o punto di sé, anche nella maglietta del Genova che prima di andare all'edicola aveva voluto indossare per forza. Essere l'ebreo degli ebrei ... per questo, è vero, ci voleva un po' più di fantasia».



Il romanzo si presenta, dunque, come una commistione tra le vicende storiche e il mondo interiore di Alessandro, a partire da quel rapporto conflittuale con i suoi genitori che in qualche modo lo condiziona, soprattutto con sua madre Emilia che appare più interessata all'apparenza che all'essenza delle cose e sembra considerare le capacità di suo figlio come una specie di riscatto, di ricompensa per qualcosa che le era stato negato, fino al punto di accogliere quasi con rancore le prime incertezze scolastiche di Alessandro.
Il padre Marc, invece, si pone al lato opposto, con la sua tranquillità, che a volte viene scambiata per arrendevolezza di fronte alla irrequietezza e alla testardaggine della moglie, e il suo tentativo di trasmettere al figlio il desiderio di andare oltre le apparenze e di scoprire le verità celate dietro le mistificazioni di un regime dittatoriale.
La famiglia Rimon, pur tra tali conflitti, rimane unita nell'affrontare la tremenda sensazione di sentirsi stranieri in quella che veniva considerata fino a poco tempo prima la propria patria, privati, ormai, di ogni diritto. Lia Levi riesce magistralmente a far emergere tale sensazione di smarrimento, che si accompagna all'iniziale rifiuto di accettare la realtà, alla paura di affrontare il dolore e di scoprire l'orrore che si cela dietro un'apparente tranquillità, all'incertezza di chi non sa se sia meglio cogliere l'occasione e fuggire all'estero oppure rimanere nella speranza che ogni minaccia si attenui. Con quella rassegnazione che, secondo il giovane Alessandro, i suoi familiari sembrano ormai provare, come quel treno, nella citazione iniziale, che continua la sua corsa sul terreno infido e cerca di adattarsi.
Due episodi mi hanno colpito particolarmente riguardo a questo rifiuto di affrontare la verità e il dolore. Anzitutto quando il cognato Osvaldo corre a casa Rimon cercando di sminuire le preoccupazioni circa gli accadimenti di quei giorni e i provvedimenti contro gli ebrei, che continuavano a cadere "come quei goccioloni radi ma già carichi che preludono alla tempesta": «Be' – si affannava Osvaldo – vuol dire che se qualcuno si trova a casa tua, hai per lo meno diritto di sapere chi è e cosa fa. Ma questo non significa essere ostili nei suoi confronti.»; «Marc aveva simulato un silenzioso battito di mani e con quella sua voce, e un sorriso a mezz'aria, aveva solo mormorato: "Bravo! Sei proprio entrato in pieno nella loro mentalità"». 


E poi quando i Rimon accolgono una coppia ebrea fuggita con i loro due figli dall'Austria, ormai occupata dalla Germania nazista, e Alessandro cerca di conoscere i dettagli della loro fuga parlando in francese con la figlia maggiore, di nascosto dai loro padri che non volevano che quel dolore venisse svelato troppo.
La religione è un altro tema importante su cui il racconto si sofferma spesso, soprattutto nelle riflessioni di Alessandro, nonché in vari episodi che coinvolgono la sua famiglia.
«Quando poi compilerete il maledetto censimento, là dove c'è scritto "religione", provate pure. Potrete scrivere agnostico, libero pensatore, cultore di Bakunin o di Giove saturnino, per loro la traduzione sarà la stessa di noi che recitiamo lo Shenà due volte al giorno: razza ebraica». Uno studente rabbino così si rivolge a Marc e Osvaldo con un tono stranamente aggressivo, ma che serve a far capire loro che rinnegare la religione e i suoi riti non garantirà loro la salvezza.
Ma che ruolo ha la religione per il giovane Alessandro? Fin da piccolo non mostra una fede particolarmente profonda, ma, come gli farà notare il rabbino che lo introdurrà ai riti ebraici, appare comunque molto legato alla tradizione. Forse grazie anche alla nonna materna, ormai morta da diversi anni, che sempre aveva cercato di tener viva la memoria dei racconti della tradizione e che al nipote aveva lasciato in eredità una catenina con la stella ebraica. E quel legame con la tradizione sarà per Alessandro una fonte di contrasti interiori, soprattutto quando, forte del suo sentimento antifascista, cercherà di comprendere la dottrina comunista.
"Questa sera è già domani" è, dunque, un romanzo ricco di tensione emotiva, capace di suscitare sensazioni forti pur nel suo stile sobrio e mai enfatico. Un libro attuale da leggere per comprendere a quale livello di esasperazione possa essere condotto un popolo a causa di folli discriminazioni e persecuzioni. 

domenica 3 giugno 2018

Premio Strega 2018 – "Il figlio prediletto" di Angela Nanetti

Continuano le mie recensioni su alcuni dei dodici libri candidati al Premio Strega 2018. (Nei precedenti post un quadro generale dei dodici autori candidati e la recensione del romanzo di Marco Balzano).

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«Londra appariva un'altra, senza la durezza del giorno, e per la prima volta lui si sentì libero. Dal dolore e dai ricordi, ma anche dalla vita che aveva condotto fino a quel momento, compressa come una cella di prigione, fatta di Marie e di Carminucce e di preti come padre Luigi, che imponevano l'ora del ritiro. E forse per quella luce strana, forse per quei suoni di chitarra, sentì all'improvviso forte e dolorosa la voglia di riprendersi il mondo».
Il desiderio di riprendere in mano la propria vita, la voglia di liberarsi dall'opprimente peso dei ricordi che continuano a tormentare o di allontanarsi dai condizionamenti familiari per ritrovare la propria identità, con Londra a rappresentare una meta ideale, un punto di netta separazione dalla precedente vita, pur se con un percorso interiore complesso e non privo di ostacoli. Sono questi i temi che costituiscono il nucleo essenziale de "Il figlio prediletto" (Neri Pozza), romanzo di Angela Nanetti candidato al Premio Strega 2018.
Tutto ha inizio in una terribile e spietata notte di inizio giugno del 1970, in cui Nunzio e Antonio, promettenti calciatori e compagni di squadra in un piccolo paese della Calabria, vorrebbero semplicemente vivere il loro amore, quella passione scoppiata all'improvviso alcuni mesi prima e che i due ragazzi non avevano potuto fare a meno di assecondare. Una passione vissuta di nascosto, tra segreti e gioie, "ansia non detta e futuro cancellato", perché nei loro ambienti nessuno avrebbe potuto capire e molti avrebbero condannato. Ma la condanna, tremenda e ineluttabile, arriva comunque dalla famiglia di Nunzio, i Lo Cascio, una famiglia appartenente alla 'ndrina, alla malavita locale, che non esita a mandare propri uomini a uccidere Antonio, lasciandolo cadavere di fronte a Nunzio. Il ragazzo, sconvolto e incredulo, non può far altro che vegliare il suo amato fino all'alba, ovvero fino a quando suo fratello Santino non arriva a prenderlo e solo in quel momento tutto appare chiaro.


Questo episodio costituisce il prologo di un romanzo particolare, che si compone di due storie distinte, collocate su piani temporali diversi, storie che all'inizio si svolgono parallelamente, ma che finiscono a un certo punto per intrecciarsi. Ma il dolore e il desiderio di ribellione e rivalsa dei due protagonisti, Nunzio e Annina, hanno la stessa origine, quella famiglia spietata che non ammette che qualcuno possa infrangere le proprie regole.
La storia di Nunzio viene narrata in terza persona, con uno stile che fonde precisione e poeticità, volto a far emergere quella malinconia di fondo di un giovane che a venti anni si sente già sconfitto e avverte la pesantezza di un dolore che si porta dietro e finisce quasi per schiacciarlo: «Il vecchio sembrava aver capito che il mondo gli aveva mostrato all'improvviso la faccia più feroce, quella di un padre e due fratelli che gli avevano spezzato le ossa a una a una. E niente dentro di lui teneva più: non la fiducia negli uomini, non la speranza di futuro, nemmeno la sua identità. Di Nunzio Lo Cascio era rimasto solo un mucchio di carne dolorante, che chiedeva di non avere ricordi né pensieri. Dormire, solo questo voleva».
Nunzio dopo quella terribile notte è costretto a partire per Londra. I suoi familiari lo hanno mandato via, lontano dal suo paese, forse per punizione o per evitare qualsiasi indiscrezione sulla sua omosessualità, una macchia per il loro onore. E Nunzio di tale allontanamento in fondo appare contento: come avrebbe potuto vivere con il padre e i fratelli dopo ciò che gli hanno fatto, con l'orrore della morte di Antonio sempre davanti agli occhi?


Le tappe che caratterizzano il percorso interiore di Nunzio coincidono con la comparsa di alcuni personaggi che diventano per lui fondamentali. Sullo sfondo, la Gran Bretagna in un periodo di crisi economica, di elevata disoccupazione e di numerosi scioperi, scanditi dalle rivendicazioni sindacali, periodo che culmina nell'elezione di Margaret Thatcher a primo ministro del Regno Unito nel 1979.
In quegli anni Nunzio, fallita ogni possibilità di intraprendere l'attività calcistica per un infortunio, conosce dapprima Thomas, figlio di un lord che rinnega le sue origini e si dedica con ardore alla lotta comunista. E con lui stringe un rapporto di amicizia intenso e sincero che gli consente finalmente di risollevarsi e ritrovare la tranquillità e la voglia di vivere, oltre che appassionarsi alle tematiche sociali.
In seguito, si ritroverà alle prese con un altro stravagante personaggio, che si rivelerà comunque molto importante per lui, un artista poliedrico, fotografo, pittore e musicista da tutti soprannominato 'Funny Jack': «un uomo di età indefinibile, tra i quaranta e i cinquanta, di un biondo rossiccio, anche sul petto villoso che esibiva dalla camicia bianca sbottonata, lo stomaco del bevitore e un vistoso orecchino al lobo sinistro che gli dava un'aria piratesca». Un mentore che non esiterà ad aiutare Nunzio nel momento del bisogno, facendogli scoprire il mondo della fotografia.
Nel cuore e nella mente di Nunzio Antonio è sempre presente, un ricordo misto all'orrore e anche a un certo rimorso, sensazioni che il giovane cerca man mano di far colar via dal suo corpo. La piena accettazione della propria omosessualità e le passioni appena scoperte sono per lui una forma di riscatto da quel tremendo passato che si porta dietro.
Nel frattempo prende avvio anche la storia di Annina, narrata in prima persona con un linguaggio più immediato e denso di espressioni dialettali. Nipote di Nunzio in quanto figlia di suo fratello Santino, nella sua innocenza di bambina non può comprendere l'orrore che la circonda, ma crescendo dovrà toccare con mano la "tranquilla ferocia" di cui suo padre può essere capace. Nunzio non lo ho mai conosciuto, è andato via quando ancora non era nata, ma il suo nome risuona spesso nelle parole di sua nonna Carmela, madre di Nunzio e Santino. 


La vita di Annina, scandita dalle imposizioni familiari, con un padre che cerca di controllarne ogni mossa e una nonna che condanna ogni sua velleità artistica, viene scossa da un inevitabile moto di ribellione, una fuga a Londra per inseguire il sogno di diventare attrice di teatro, un percorso che sarà segnato dalla presenza di altri uomini che cercheranno di sfruttarla e di imporre la propria volontà. Le storie di Annina e Nunzio, pur se in modo particolare, si intrecceranno nel momento in cui Annina si metterà alla ricerca delle tracce di suo zio e di coloro che lo hanno conosciuto.
Come ho accennato sopra, entrambi i protagonisti sono alla ricerca di un riscatto rispetto alla loro precedente esistenza per allontanarsi dai condizionamenti familiari, pur seguendo un percorso completamente diverso. Nunzio in qualche modo subisce l'allontanamento dal suo paese, ma coglie tale occasione per rinascere e buttar via l'orrore che si porta dietro, grazie anche agli amici che incontra lungo il sentiero. E il destino che appariva così avverso in alcuni momenti sembra volerlo aiutare, cercando di portare la sua felicità a un apice oltre il quale non può esserci più nulla. Annina, invece, ha bisogno di uno strappo, di un gesto di ribellione per avviarsi verso quel riscatto, che sembra finalmente concretizzarsi solo quando deciderà di capire meglio chi era suo zio Nunzio. Forse anche con lei il destino avverso a un certo punto sembra voler essere benevolo.
"Il figlio prediletto" è un romanzo denso di malinconia e di speranza, con personaggi ben caratterizzati, in bilico tra lo scoraggiamento e il desiderio di rivincita, tra cadute e rincorse, accompagnato da una narrazione non sempre lineare, fatta di anticipazioni, strappi, immagini forti, visioni sconsolate o luminose, in cui appare chiaro che la ferocia dei prepotenti non sempre riesce a piegare l'animo di chi ha realmente voglia di vivere.