domenica 9 settembre 2018

Novecento italiano – Leonardo Sciascia e "A ciascuno il suo"

«Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell'umanità si abbevera. Nella realtà le cose stanno però diversamente: e i coefficienti di impunità e dell’errore sono alti non perché (o non soltanto, o non sempre) è basso l'intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre sono di solito assolutamente insufficienti. Un delitto, diciamo, commesso o organizzato da gente che ha tutta la buona volontà di contribuire a tenere alto il coefficiente di impunità.
Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti».
Leonardo Sciascia, nato a Racalmuto nel 1921 e morto a Palermo nel 1989, è una delle grandi figure del Novecento italiano ed europeo e con le sue opere ha dato vita a una mirabile, affascinante e originale contaminazione tra romanzo giallo e romanzo di denuncia civile.


Mediante un'assidua frequentazione giovanile della biblioteca del suo paese e la lettura di numerosi classici tra cui Diderot e Manzoni, Sciascia giunse a una solida formazione letteraria che i critici definirono di stampo illuminista e moralista. Egli era considerato, infatti, un illuminista in quanto credeva fortemente nella ragione e nella libertà, e un moralista per la sua tendenza a frugare nelle pieghe dell'anima nel tentativo di capire le motivazioni dell'agire umano e le sue sensazioni.
L'illuminismo di Sciascia si distacca, tuttavia, dai suoi maestri francesi per la sua venatura pessimistica, pur rimanendo ferma la fiducia nell'attitudine dell'uomo a comprendere e giudicare: se Diderot confida nella possibilità che la società e il singolo progrediscano, Sciascia nutre il dubbio che tutto sia bloccato e immodificabile, pur lottando per il progresso e la verità. Di fronte alla violenza, alla corruzione, allo sfruttamento e soprattutto alla mafia, l'autore mantiene la lucidità nella diagnosi e la fermezza nella condanna. Ma il suo pessimismo fa sì che i suoi eroi finiscano per essere sconfitti. (1)
"A ciascuno il suo" rispecchia tale impostazione pessimistica. Il romanzo prende avvio con la consegna di un'anonima lettera di minacce al dott. Manno, il farmacista di un piccolo paese siciliano. Il farmacista e i suoi amici sono indotti, pur con qualche timore non totalmente manifesto, a ritenere tale lettera minatoria un semplice scherzo o forse un tentativo di impedire al farmacista e al suo amico, il dott. Roscio, medico del paese, di prendere parte all'avvio della stagione di caccia. Quando, pochi giorni dopo, i due vengono ritrovati uccisi, le indagini iniziano a concentrarsi sull'ipotesi di un delitto passionale legato a un'ipotetica infedeltà del farmacista.


Il prof. Laurana, amico del dott. Roscio, viene colpito da un particolare, una parola "UNICUIQUE" che risalta ai suoi occhi nel momento in cui si ritrova a osservare il retro della lettera minatoria, un dettaglio che lo induce a pensare che i pezzi di giornale per la composizione della missiva siano stati tratti dal quotidiano "L'Osservatore romano". Tale particolare lo spinge a iniziare una sua personale indagine, con dettagli sempre maggiori che vengono svelati quasi per caso mediante incontri e delazioni e che gli fanno scoprire una realtà di affari loschi, tradimenti e inganni.
Lo stile di Sciascia può ben considerarsi sobrio ed essenziale, privo di orpelli retorici, ma pienamente efficace nel tratteggiare i caratteri dei vari personaggi, nell'indagare e mostrare gli stati d'animo che accompagnano le rispettive azioni, le reazioni di fronte a eventi imprevisti, i conflitti interiori dinnanzi alla necessità di difendersi da pericoli e minacce, una necessità che spesso rischia di prevalere sull'esigenza di giustizia.
Ne è un esempio la descrizione delle sensazioni che il farmacista Manno prova di fronte alla minacciosa missiva appena recapitata, nel momento in cui cerca di capire le ragioni di un simile gesto nei suoi confronti. Un fatto del genere accadeva proprio a lui che si considerava una persona tranquilla, che non aveva mai avuto discussioni, nemmeno di carattere politico, ma che anzi considerava la politica un argomento di cui non valeva la pena parlare. È, dunque, inevitabile lo sgomento di fronte alla perfidia altrui: «Così, con leggerezza lo sogguardò il farmacista: ma un così leggero pensiero subito si versò nell'amarezza di chi, ingiustamente colpito, ecco che scopre alta sulla cattiveria altrui la propria umanità, e si condanna e compiange perché alla cattiveria inadatto».
Sciascia ci restituisce, poi, l'immagine tipica di un paese popolato da gente un po' pettegola con una mentalità chiusa e bigotta, in cui si fa subito strada l'idea che il colpevole sia stato spinto a commettere il duplice omicidio da un movente passionale, mentre con grande facilità viene individuato un capro espiatorio da mettere sul rogo, l'incolpevole ragazza che spesso si recava dal farmacista con numerose ricette: «Convinto il commissario, alla ragazza restava da convincere un paese intero, 7500 abitanti, i suoi familiari inclusi. I quali, appena rilasciata dal commissario, ad ogni buon conto si avventarono su di lei e silenziosamente, tenacemente, accuratamente la picchiarono».


Il professor Laurana è senza dubbio il protagonista principale e il suo animo viene indagato a fondo nel corso del romanzo. Insegnante di italiano e latino al liceo classico del capoluogo, gentile, timido, ma irremovibile nel giudizio, «un uomo onesto, meticoloso, triste; non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità, con scompensi e risentimenti che si conosceva e condannava». Egli non considerava il dottor. Roscio, di cui era stato un compagno di liceo, un vero e proprio amico (di amici in realtà non ne aveva affatto), ma una persona con cui chiacchierare ogni tanto di episodi degli anni di scuola, oltre che un buon medico che ogni tanto visitava sua madre quando accusava taluni disturbi.
Non è il dispiacere per la morte di Roscio - un dispiacere che certamente provava - a indurre Laurana ad avviare la sua personale indagine, ma una curiosità essenzialmente intellettuale, quasi un puntiglio, alimentato dalle confidenze e dai dettagli che man mano vengono svelati grazie a numerosi incontri: un amico parlamentare, il padre di Roscio, famoso oculista ormai vecchio e cieco, Benito, il bizzarro fratello di un vecchio compagno di studi, il cui dialogo con Laurana assume la veste di uno sproloquio apparentemente stralunato, ma fortemente lucido in alcune parti e ricco di interessanti spunti di riflessione:
«“Non esce mai di casa?”
Mai, da parecchi anni … Ad un certo punto della mia vita ho fatto dei calcoli precisi: che se io esco di casa per trovare la compagnia di una persona intelligente, di una persona onesta, mi trovo ad affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette imbecilli, che stanno lì, pronti a comunicarmi le loro opinioni sull'umanità, sul governo, sull’amministrazione municipale, su Moravia… Le pare che valga la pena?”
No, effettivamente no”».
Pur arrivando, senza alcun indugio, a capire chi sia il colpevole, Laurana è come bloccato in quella incertezza pessimistica cui accennavo sopra, che lo induce, da un lato, a una certa diffidenza verso gli strumenti della legge e della giustizia, da cui si sente profondamente lontano ("quanto Marte sia lontano dalla Terra") per un «oscuro amor proprio che gli faceva decisamente respingere l'idea che per suo mezzo toccasse giusta punizione ai colpevoli», e, dall'altro lato, verso una forma di disagio per un'involontaria complicità con i colpevoli, che si unisce al turbamento per l'attrazione verso la vedova Roscia, un'attrazione che mette in luce tutta la vulnerabilità di Laurana e rischia di divenire pericolosa: «E qui si faceva ambigua anche la sensualità, il desiderio: la gelosia, immotivata, gratuita, carica di tutte le insoddisfazioni, timidezze e repressioni della sua vita, da una parte; un acre piacere, quasi l’appagamento del desiderio in una sorta di visuale prossenetismo, dall’altra. Ma tutto ciò molto confusamente, in un baluginare allucinato, febbrile».
"A ciascuno il suo" è un intenso romanzo di denuncia contro la violenza e la prevaricazione, una denuncia che, tuttavia, sembra ormai aver acquisito la consapevolezza che al male non si può rimediare, ma se ne può soltanto prendere atto, in una situazione di immobilità dettata dalla paura e dal senso di sfiducia verso la giustizia.



(1). V. Faggi " Il nipote di Diderot" in "Il Secolo XIX" 21 novembre 1989

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