domenica 16 settembre 2018

Premio Strega 2018 – "Come un giovane uomo" di Carlo Carabba

«Da sempre aspettavo che la neve tornasse a cadere su Roma». La delusione di fronte al compimento di un desiderio la cui realizzazione è stata lungamente attesa appare come uno dei fili conduttori di "Come un giovane uomo" (Marsilio), il romanzo di Carlo Carabba incluso tra i 12 candidati al Premio Strega 2018. Un romanzo strutturato come un monologo interiore con una profonda analisi introspettiva che, partendo dal ricordo di episodi dell'infanzia e dell'adolescenza fino a giungere al racconto di accadimenti più recenti, dà vita a una sequenza di riflessioni e ragionamenti sul complesso passaggio dalla giovinezza all'età adulta, sui legami interpersonali e sul rapporto con la morte e il lutto, un rapporto che inevitabilmente spaventa e inquieta.
Tale sequenza di riflessioni rende la struttura narrativa complessa e non sempre di agevole lettura,  avvalendosi di continui incisi e rinvii ad altri argomenti, anche grazie ai frequenti viaggi a ritroso con la memoria. Si tratta, comunque, di una narrazione ricca di interessanti spunti letterari e forte di uno stile preciso ed elegante.


Il racconto degli eventi prende avvio con il ricordo, denso di nostalgia, di una nevicata avvenuta a Roma nei primi anni Ottanta, di cui il protagonista conserva una memoria visiva i cui contorni sono resi incerti dal tempo ormai trascorso e dall'immaginazione che spesso finisce per modificare i tratti essenziali che gli accadimenti passati assumono nella mente, come ad esempio il viso della persona con cui il protagonista ebbe modo di recarsi al parco per osservare la natura imbiancata e calpestare la neve, un viso reso sfuocato e privo di lineamenti come i personaggi di un fumetto Disney con Topolino ed Eta Beta.
Quel ricordo per il protagonista è inevitabilmente associato ad altre reminiscenze della sua infanzia, soprattutto al rapporto con i compagni di scuola nei cui confronti ha sempre provato una inevitabile forma di disagio, forse perché vittima di una certa paura di adattarsi alla vita, oltre che del timore di crescere e di non essere in grado di affrontare il futuro. Ma il ricordo è soprattutto un sogno lungamente vagheggiato di rivedere la neve cadere su Roma: «Nel corso degli anni, ormai cresciuto, avrei tentato più volte, passeggiando o correndo, di risalire a quel tempo smarrito, sperando che il contatto con lo stesso suolo che avevo visto coperto di bianco [...]sapesse ritrovare la vibrazione originaria che aveva prodotto l'eco dei ricordi che da tanti anni risuonava nella mia mente, restituendomi il centro perduto della reminiscenza e dell'oblio di cui ignoravo tanto e da cui tanto di quello che ero e sono dipende: la mia infanzia».
Il sogno si realizza circa venticinque anni dopo, ma il desiderio, ormai compiuto, lascia il posto a una profonda insoddisfazione cui il protagonista tenta man mano, forse inutilmente, di dare una spiegazione razionale. Ma certamente il suo intento a lungo coltivato di ritrovare l'incanto dell'infanzia, al fine di ricongiungere in qualche modo il passato con il presente tramite una epifania capace di svelare profonde verità sull'esistenza, risulta purtroppo vano.


Nel romanzo sembrano assumere un ruolo essenziale le coincidenze di eventi apparentemente distanti tra loro, coincidenze spesso vissute con un senso di colpa e il vano tentativo di attribuire loro un particolare significato. La principale coincidenza è, senza dubbio, tra la nevicata di circa venticinque anni dopo e un evento tragico, un incidente che coinvolge Mascia, una cara amica del protagonista, che entra in coma e muore dopo pochi giorni. E in tal caso il senso di colpa, col senno di poi, è legato al fatto di aver vissuto le ore precedenti la scoperta di tale drammatica notizia in preda a sciocchi dubbi e falsi buoni auspici legati alla neve, cui verrà attribuito, poi, quasi un ruolo nefasto e di malaugurio.
Quel tragico accadimento si porta dietro notevoli conseguenze per il protagonista che fin da subito sembra quasi aver messo tra parentesi la notizia ricevuta, creando una parete protettiva che, se da un lato sembra almeno temporaneamente proteggerlo dal dolore, dall'altro lo trascina in un vortice di sensi di colpa che si acuiscono progressivamente inducendolo a credere di avere un cuore arido e insensibile.
L'unico modo per cercare di uscire da quel ginepraio di sensazioni - in cui si inserisce anche un importante richiamo a un libro di Adelbert Von Chamisso, "Storia straordinaria di Peter Schlemihl", il cui protagonista si ritrova a dover scegliere tra la propria ombra o la propria anima - è quello di elaborare il lutto richiamando alla mente episodi precedenti in cui l'io narrante ha dovuto affrontare il dolore di una perdita, come quello della nonna materna, e cercando di ricostruire il rapporto con Mascia fin dal loro incontro e dal tentativo di definire un nuovo approccio alla vita: «Quella sera, tra le nostre due identità appena nate (...) avvenne un riconoscimento, fondato però non sulla certezza che in noi era avvenuto un cambiamento, una trasformazione in persone sicure di sé, indurite dalle avversità della vita, rese ciniche dai rovesci del cuore, ma sulla necessità reciproca di credere che questo cambiamento ci fosse stato davvero, offrendoci soccorso e protezione dallo scetticismo di chi ci conosceva da tempo e che, sentivamo, avrebbe ritenuto impossibile che mutassimo realmente».
"Come un giovane uomo" è, dunque, una coraggiosa e sincera confessione che denota una notevole capacità di scavare a fondo nella mente e di districarsi all'interno di un labirinto di sensazioni e pensieri contrastanti che spesso rimbalzano da un lato all'altro del proprio cervello, affrontando l'inevitabile smarrimento e cercando una possibile via d'uscita.


domenica 9 settembre 2018

Novecento italiano – Leonardo Sciascia e "A ciascuno il suo"

«Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell'umanità si abbevera. Nella realtà le cose stanno però diversamente: e i coefficienti di impunità e dell’errore sono alti non perché (o non soltanto, o non sempre) è basso l'intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre sono di solito assolutamente insufficienti. Un delitto, diciamo, commesso o organizzato da gente che ha tutta la buona volontà di contribuire a tenere alto il coefficiente di impunità.
Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti».
Leonardo Sciascia, nato a Racalmuto nel 1921 e morto a Palermo nel 1989, è una delle grandi figure del Novecento italiano ed europeo e con le sue opere ha dato vita a una mirabile, affascinante e originale contaminazione tra romanzo giallo e romanzo di denuncia civile.


Mediante un'assidua frequentazione giovanile della biblioteca del suo paese e la lettura di numerosi classici tra cui Diderot e Manzoni, Sciascia giunse a una solida formazione letteraria che i critici definirono di stampo illuminista e moralista. Egli era considerato, infatti, un illuminista in quanto credeva fortemente nella ragione e nella libertà, e un moralista per la sua tendenza a frugare nelle pieghe dell'anima nel tentativo di capire le motivazioni dell'agire umano e le sue sensazioni.
L'illuminismo di Sciascia si distacca, tuttavia, dai suoi maestri francesi per la sua venatura pessimistica, pur rimanendo ferma la fiducia nell'attitudine dell'uomo a comprendere e giudicare: se Diderot confida nella possibilità che la società e il singolo progrediscano, Sciascia nutre il dubbio che tutto sia bloccato e immodificabile, pur lottando per il progresso e la verità. Di fronte alla violenza, alla corruzione, allo sfruttamento e soprattutto alla mafia, l'autore mantiene la lucidità nella diagnosi e la fermezza nella condanna. Ma il suo pessimismo fa sì che i suoi eroi finiscano per essere sconfitti. (1)
"A ciascuno il suo" rispecchia tale impostazione pessimistica. Il romanzo prende avvio con la consegna di un'anonima lettera di minacce al dott. Manno, il farmacista di un piccolo paese siciliano. Il farmacista e i suoi amici sono indotti, pur con qualche timore non totalmente manifesto, a ritenere tale lettera minatoria un semplice scherzo o forse un tentativo di impedire al farmacista e al suo amico, il dott. Roscio, medico del paese, di prendere parte all'avvio della stagione di caccia. Quando, pochi giorni dopo, i due vengono ritrovati uccisi, le indagini iniziano a concentrarsi sull'ipotesi di un delitto passionale legato a un'ipotetica infedeltà del farmacista.


Il prof. Laurana, amico del dott. Roscio, viene colpito da un particolare, una parola "UNICUIQUE" che risalta ai suoi occhi nel momento in cui si ritrova a osservare il retro della lettera minatoria, un dettaglio che lo induce a pensare che i pezzi di giornale per la composizione della missiva siano stati tratti dal quotidiano "L'Osservatore romano". Tale particolare lo spinge a iniziare una sua personale indagine, con dettagli sempre maggiori che vengono svelati quasi per caso mediante incontri e delazioni e che gli fanno scoprire una realtà di affari loschi, tradimenti e inganni.
Lo stile di Sciascia può ben considerarsi sobrio ed essenziale, privo di orpelli retorici, ma pienamente efficace nel tratteggiare i caratteri dei vari personaggi, nell'indagare e mostrare gli stati d'animo che accompagnano le rispettive azioni, le reazioni di fronte a eventi imprevisti, i conflitti interiori dinnanzi alla necessità di difendersi da pericoli e minacce, una necessità che spesso rischia di prevalere sull'esigenza di giustizia.
Ne è un esempio la descrizione delle sensazioni che il farmacista Manno prova di fronte alla minacciosa missiva appena recapitata, nel momento in cui cerca di capire le ragioni di un simile gesto nei suoi confronti. Un fatto del genere accadeva proprio a lui che si considerava una persona tranquilla, che non aveva mai avuto discussioni, nemmeno di carattere politico, ma che anzi considerava la politica un argomento di cui non valeva la pena parlare. È, dunque, inevitabile lo sgomento di fronte alla perfidia altrui: «Così, con leggerezza lo sogguardò il farmacista: ma un così leggero pensiero subito si versò nell'amarezza di chi, ingiustamente colpito, ecco che scopre alta sulla cattiveria altrui la propria umanità, e si condanna e compiange perché alla cattiveria inadatto».
Sciascia ci restituisce, poi, l'immagine tipica di un paese popolato da gente un po' pettegola con una mentalità chiusa e bigotta, in cui si fa subito strada l'idea che il colpevole sia stato spinto a commettere il duplice omicidio da un movente passionale, mentre con grande facilità viene individuato un capro espiatorio da mettere sul rogo, l'incolpevole ragazza che spesso si recava dal farmacista con numerose ricette: «Convinto il commissario, alla ragazza restava da convincere un paese intero, 7500 abitanti, i suoi familiari inclusi. I quali, appena rilasciata dal commissario, ad ogni buon conto si avventarono su di lei e silenziosamente, tenacemente, accuratamente la picchiarono».


Il professor Laurana è senza dubbio il protagonista principale e il suo animo viene indagato a fondo nel corso del romanzo. Insegnante di italiano e latino al liceo classico del capoluogo, gentile, timido, ma irremovibile nel giudizio, «un uomo onesto, meticoloso, triste; non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità, con scompensi e risentimenti che si conosceva e condannava». Egli non considerava il dottor. Roscio, di cui era stato un compagno di liceo, un vero e proprio amico (di amici in realtà non ne aveva affatto), ma una persona con cui chiacchierare ogni tanto di episodi degli anni di scuola, oltre che un buon medico che ogni tanto visitava sua madre quando accusava taluni disturbi.
Non è il dispiacere per la morte di Roscio - un dispiacere che certamente provava - a indurre Laurana ad avviare la sua personale indagine, ma una curiosità essenzialmente intellettuale, quasi un puntiglio, alimentato dalle confidenze e dai dettagli che man mano vengono svelati grazie a numerosi incontri: un amico parlamentare, il padre di Roscio, famoso oculista ormai vecchio e cieco, Benito, il bizzarro fratello di un vecchio compagno di studi, il cui dialogo con Laurana assume la veste di uno sproloquio apparentemente stralunato, ma fortemente lucido in alcune parti e ricco di interessanti spunti di riflessione:
«“Non esce mai di casa?”
Mai, da parecchi anni … Ad un certo punto della mia vita ho fatto dei calcoli precisi: che se io esco di casa per trovare la compagnia di una persona intelligente, di una persona onesta, mi trovo ad affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette imbecilli, che stanno lì, pronti a comunicarmi le loro opinioni sull'umanità, sul governo, sull’amministrazione municipale, su Moravia… Le pare che valga la pena?”
No, effettivamente no”».
Pur arrivando, senza alcun indugio, a capire chi sia il colpevole, Laurana è come bloccato in quella incertezza pessimistica cui accennavo sopra, che lo induce, da un lato, a una certa diffidenza verso gli strumenti della legge e della giustizia, da cui si sente profondamente lontano ("quanto Marte sia lontano dalla Terra") per un «oscuro amor proprio che gli faceva decisamente respingere l'idea che per suo mezzo toccasse giusta punizione ai colpevoli», e, dall'altro lato, verso una forma di disagio per un'involontaria complicità con i colpevoli, che si unisce al turbamento per l'attrazione verso la vedova Roscia, un'attrazione che mette in luce tutta la vulnerabilità di Laurana e rischia di divenire pericolosa: «E qui si faceva ambigua anche la sensualità, il desiderio: la gelosia, immotivata, gratuita, carica di tutte le insoddisfazioni, timidezze e repressioni della sua vita, da una parte; un acre piacere, quasi l’appagamento del desiderio in una sorta di visuale prossenetismo, dall’altra. Ma tutto ciò molto confusamente, in un baluginare allucinato, febbrile».
"A ciascuno il suo" è un intenso romanzo di denuncia contro la violenza e la prevaricazione, una denuncia che, tuttavia, sembra ormai aver acquisito la consapevolezza che al male non si può rimediare, ma se ne può soltanto prendere atto, in una situazione di immobilità dettata dalla paura e dal senso di sfiducia verso la giustizia.



(1). V. Faggi " Il nipote di Diderot" in "Il Secolo XIX" 21 novembre 1989

sabato 1 settembre 2018

Novità letterarie – "Ripaferdine (storie di cortile)" di Paolo Vitaliano Pizzato

«Avevo trattato la zona con indifferenza, come un vecchio amico che si è smesso di frequentare, un ex compagno di scuola sbiadito insieme agli insegnanti amati e odiati, alle aule e ai loro odori, abbandonato nell'eterno sovrapporsi dei giorni. Avevo avuto le mie buone ragioni per comportarmi così, lo sapevo bene, ma in quel momento era come se le motivazioni di un tempo avessero perduto la loro importanza. Adesso c'era soltanto la zona, e il terrore di perderla per sempre».
"Ripaferdine (storie di cortile)" (Giraldi Editore) è un romanzo molto particolare di Paolo Vitaliano Pizzato, composto da una sequenza di quadri, di storie, di stralci di vita che alternano momenti di ironia, tenerezza e coraggio, ma anche di paura e scoramento. Sono storie legate tra loro dal filo della memoria, dalla nostalgia di un uomo che intende narrare tali vicende per cercare in qualche modo di trattenere e rievocare il passato, sforzandosi di impedire che i pezzi che lo compongono vadano inesorabilmente perduti a causa dell'inarrestabile avanzare del progresso.


L'uomo che cerca di realizzare tale salvifica narrazione è un ingegnere che ha trascorso la sua infanzia e adolescenza in un quartiere periferico di Milano, "un quadrilatero, una serie di vie che tagliano schiere di palazzi e piccoli negozi", confidenzialmente ribattezzato "la zona" dai suoi abitanti, e che ora vi ritorna per svolgere il suo lavoro, ovvero vigilare sull'esecuzione di un piano di ristrutturazione che, in vista dell'Expo 2015, avrebbe dovuto coinvolgere l'intera zona trasformandola radicalmente.
La paura dell'ingegnere è che la zona con questo profondo stravolgimento possa perdere i suoi connotati essenziali, quelle caratteristiche che in un certo senso l'avevano resa un luogo unico e a cui i suoi ricordi di bambino sono legati in modo indissolubile. Per questo motivo vuole affidare tali ricordi alla scrittura, da cui emerge un'assai variopinta galleria di personaggi, ognuno con il proprio mondo interiore da cogliere e svelare nella sua essenza.
L'io narrante - inizialmente rappresentato dall'ingegnere che nelle pagine successive ritorna a essere semplicemente Paolo, quel bambino che giocava in cortile con i suoi amici - si trasforma acquisendo un punto di vista collettivo, ovvero quel gruppo di ragazzini che della zona costituisce l'anima, lo spirito vitale, l'acuto occhio indagatore.
I ragazzi vivono la zona con i loro giochi, i litigi, i conflitti e le competizioni, i primi tormenti amorosi e un profondo sentimento di fratellanza che nel corso degli anni li unisce. La zona diviene il loro punto di riferimento rispetto a cui paragonare ogni altra parte della città che, di conseguenza, «diventa miraggio, qualche volta desiderio, qualche altra invece, quando decidiamo di avventurarci oltre la nostra zona, diventa scoperta». E, percorrendo la strada principale, talmente lunga e dritta che non se ne vede la fine, nella zona finiscono per arrivare i protagonisti delle diverse storie, persone che i ragazzi non possono fare a meno di osservare con attenzione imparando col tempo a capirle.


"Ripaferdine", in continuità con i precedenti romanzi di Pizzato, denota una forte esigenza di analisi introspettiva, che viene resa efficacemente attraverso la combinazione di altri elementi, tra cui la narrazione di carattere memoriale e, per certi aspetti, il romanzo di formazione, e assume una dimensione corale, collettiva, di umana partecipazione alle vicende di uomini e donne che si sentono sconfitti dalla vita, ma che in qualche modo riescono a non essere completamente infelici: «gli uni avevano gli altri, seppur in una comunione umana confusa, in una babele d'affetti che scambiava per autentico interesse una morbosità pruriginosa, in un immaturo labirinto di invidie, separazioni, alleanze che mutavano a un ritmo impressionante; vivevano una vita da villaggio, obbedienti alla regola non scritta di una mutua trasparenza, ciascuno esibendo se stesso, il ladro come il fallito, la puttana come l'ubriaco».
Ho parlato prima di "romanzo di formazione", in quanto i ragazzi, come risulta particolarmente evidente nella narrazione, crescono e maturano in quella "comunione umana confusa", imparano a capire il mondo che li circonda, traendone numerosi insegnamenti di vita, e in tal modo, si fortificano cercando di comprendere come affrontare la morte, la malattia, la solitudine, la disperazione, la follia.
L'autore conferma di possedere uno stile originale, con una scrittura precisa e ben articolata, forse ancor più matura rispetto alle precedenti opere, ricca di descrizioni accurate di luoghi e sensazioni, ben incanalate attraverso il punto di vista dei vari protagonisti. È un romanzo denso di una poeticità malinconica che trapela da ogni storia. 


Con le strampalate avventure del ladro Arnaldo, che del furto vorrebbe fare la propria professione, ma che si ritrova alle prese con un camion da rubare e una brutta sorpresa, emerge un racconto fortemente ironico e scanzonato con un personaggio fuori dal comune che non sembra volersi piegare alle avversità di un destino beffardo, ma ne affronta le conseguenze cercando di mantenere sempre il suo "contegno di ladro".
Tenera e struggente è, invece, la storia del giovane Emilio che, per il suo lieve ritardo mentale si sente rifiutato dal padre, deriso dai coetanei e anche da persone più grandi, e cerca, quindi, di sfuggire a tale triste realtà aggrappandosi all'oscurità della notte per inseguire sogni e illusioni, urlando il suo amore disperato per una ragazza.
La signora Angela, ne "La donna e i cani", è la protagonista di un racconto malinconico, ma decisamente istruttivo, che si concentra sul tema dell'abbandono dei cani, delle sofferenze e delle sevizie che spesso tali animali subiscono per opera di persone senza scrupoli. Angela con amore e dedizione si prende cura di loro prima al canile e poi con le adozioni, e si ritrova circondata dall'affetto e dalla comprensione dei ragazzini della zona che, dopo la morte di Biscotto, il primo cane adottato da Angela, si sentono responsabili e partecipi, quasi volessero prendersi una rivincita sulla morte.
"L'innamorato riflesso in un vetro" è, infine, la drammatica parabola di Desiderio, che vuol diventare ricco e farsi re come il sovrano longobardo di cui porta il nome, conosciuto studiando storia sui banchi di scuola. Ma Desiderio, in questa sua corsa, finisce per costruirsi intorno una barriera che lo porta a rifiutare la sua adolescenza, a opporsi a ogni coinvolgimento sentimentale e a ogni perdita di tempo che potrebbe distrarlo dal suo obiettivo, una barriera che, più in là con gli anni, mostrerà tutta la sua fatale fragilità.
"Ripaferdine" è, dunque, una narrazione corale di storie di persone sconfitte dalla vita, che cercano un modo per essere un po' meno infelici, ma è anche un racconto che ci parla dell'importanza della memoria. Non ci si può illudere che il mondo, specialmente quello della propria infanzia, possa rimanere per sempre inalterato e uguale a se stesso, in quanto ogni progresso è inevitabile e ogni rimpianto è inutile. Ma la memoria è un bene che nessuno può sottrarci e tentare di salvarla, trasmetterla, diffonderla, diventa una necessità ineludibile.