In
questi giorni è stato reso noto che forse anche per il 2019 non avrà
luogo l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura. Infatti,
il direttore della Fondazione Nobel ha affermato che il premio verrà
assegnato solo nel momento in cui l'Accademia svedese, in grave crisi
per scandali sessuali e finanziari, riacquisterà la fiducia delle
persone.
Si
potrebbe discutere a lungo su tale decisione di non assegnare il
premio, se si tratti di una scelta squisitamente politica o dettata
da effettive esigenze organizzative. Ciò che è certo è che tale
evento ha contribuito ulteriormente a mettere in discussione il
premio stesso.
Già
in occasione della recente morte del celebre scrittore Philip Roth
(che non mai ricevuto quel premio nonostante la spasmodica attesa
ogni anno da parte di diversi addetti ai lavori e lettori,
accompagnata da una certa ironia) molti si sono interrogati sulla
validità e sulla significatività del premio stesso, chiedendosi se
l’Accademia svedese possa realmente valutare quali scrittori
nell’ambito della letteratura mondiale siano meritevoli di tale
onorificenza.
Personalmente,
non sarei in grado di dare una risposta, sicuramente ho apprezzato
diversi scrittori che in passato hanno vinto tale premio. Penso ai
nostri grandi letterati (Giosuè Carducci, Grazia Deledda, Luigi
Pirandello, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale) o ad autori che
hanno profondamente arricchito la scena letteraria mondiale (Pablo
Neruda, Samuel Beckett, John Steinbeck, Albert Camus e molti altri).
Comunque,
grazie a un articolo del quotidiano online “Il Post” (20 ottobre
2015), tempo fa ho avuto modo di leggere un breve saggio di Tim Parks
dedicato al Premio Nobel per la letteratura (contenuto nella raccolta
“Di che cosa parliamo quando parliamo di libri”- UTET) che
mi ha fornito interessanti spunti di riflessione. In tale articolo
Parks ha messo in luce le criticità e le contraddizioni di tale
Premio con considerazioni condivisibili, soprattutto di ordine
pratico.
Ecco
alcuni estratti del saggio: “Proviamo a immaginare la quantità
di letture richieste. Supponiamo che ogni anno vengano nominati cento
scrittori, un’ipotesi plausibile, e che di ciascuno i membri della
giuria cerchino di leggere almeno un libro. Trattandosi di un premio
indirizzato all’intera opera di un autore, ipotizziamo che, una
volta ridimensionato il numero dei candidati, i membri leggano due
libri di ciascuno dei restanti, poi tre, quattro e così via. È
probabile che ogni anno si ritrovino a leggere intorno ai duecento
libri (in aggiunta al loro consueto carico di lavoro). Di questi,
pochissimi saranno scritti in svedese … Adesso fermiamoci un attimo
e immaginiamo i nostri professori svedesi, chiamati a difendere la
purezza della lingua nazionale, che confrontano un poeta indonesiano,
magari tradotto in inglese, con un romanziere del Camerun,
disponibile solo in francese, un altro che scrive in afrikaans ma è
pubblicato in tedesco e in olandese, e infine una celebrità del
calibro di Philip Roth, ovviamente disponibile in inglese, ma che i
giurati potrebbero benissimo essere tentati, se non altro per un
senso di spossatezza, di leggere in svedese. È un compito
invidiabile il loro? Ha poi tanto senso? … Come affrontiamo
l’impresa? Cercando qualche criterio semplice e ampiamente
condivisibile che ci aiuti a liberarci di questa seccatura. E poiché,
per citare ancora Borges, l’estetica è complessa e richiede una
sensibilità speciale, mentre l’affiliazione politica è più
semplice e rapida da afferrare, cominciamo con l’inquadrare le aree
del mondo che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica,
magari per un’agitazione politica o perché accusate di violazioni
dei diritti umani; troviamo gli autori che si sono già guadagnati
una bella dose di rispetto e magari anche qualche premio importante
nella comunità letteraria di quei paesi, e che si sono schierati
apertamente dalla parte giusta dello scontro politico in questione, e
li selezioniamo.”.
Dunque,
secondo Parks l’Accademia svedese si troverebbe nell’impossibilità
di adottare un criterio puramente estetico, considerata l’estrema
difficoltà di una selezione basata su una approfondita disamina
degli scrittori potenzialmente meritvoli di premiazione. Il criterio
adottato sarebbe, dunque, di carattere più politico. D’altronde,
secondo le intenzioni iniziali, tale premio sarebbe dovuto andare
all'autore nel campo della letteratura mondiale che "si sia
maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale".
Tale direzione ideale può tranquillamente essere quella descritta da
Parks.
Negli
anni non sono mancate, ovviamente, le sorprese e le polemiche. Come
ho avuto modo di scoprire con una semplice ricerca sul web, sorpresa
vi fu già con il primo premiato, il poeta francese Sully Prudhomme
che fu insignito del primo Premio Nobel per la letteratura nel 1901,
mentre erano molto favoriti scrittori come Émile Zola e Lev Tolstoj.
D'altronde, altri celebri scrittori non lo hanno mai vinto. Soltanto
per citarne alcuni: Marcel Proust, James Joyce, Louis-Ferdinand
Céline, Vladimir Nabokov, oltre, ovviamente, a Philip Roth.
Polemiche
vi furono anche per la premiazione di Dario Fo (molti rappresentanti
della cultura italiana da anni patrocinavano la candidatura di Mario
Luzi, mentre il critico letterario Harold Bloom lo definì
semplicemente ridicolo) e di Elfriede Jelinek, scrittrice austriaca
la cui opera, secondo Parks, è da considerarsi feroce e spesso
indigesta.
Parks
conclude parlando di sostanziale futilità del Nobel, che non
andrebbe preso troppo sul serio: “diciotto (o sedici) cittadini
svedesi avranno una certa credibilità quando si tratta di valutare
opere letterarie svedesi […] ma può davvero esistere un gruppo in
grado di comprendere l’infinita varietà di opere appartenenti a
così tante tradizioni diverse?”. Eppure, credo che in questi
due anni l'attesa della premiazione con immancabile pronostico un po'
ci mancherà.
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